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venerdì 20 settembre 2019

Il Codice del Terzo settore è legge. Cosa cambia con il grande “riordino”



Pubblicato in GU il decreto legislativo ( DECRETO 4 luglio 2019 ) più corposo tra quelli previsti dalla riforma. Ma avrà bisogno di ben 20 decreti ministeriali per funzionare. In un solo testo tutti gli “Enti del Terzo settore” e le “attività di interesse generale” che dovranno svolgere. Con i relativi obblighi e vantaggi
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è in vigore da oggi il Codice del Terzo settore. Si tratta del decreto legislativo più corposo (104 articoli) tra i cinque emanati dopo la legge delega per la riforma del Terzo settore (106/2016). E avrà bisogno a sua volta, entro il prossimo anno, di ben 20 decreti ministeriali perché funzioni, nella pratica, tutto quanto previsto.
La parola riordino, usata più volte anche dal sottosegretario Luigi Bobba, “padre” della riforma, è la più appropriata per indicare lo scopo principale del Codice. Tre esempi sono sufficienti a farne comprendere la portata.
PRIMO: vengono abrogate diverse normative, tra cui due leggi storiche come quella sul volontariato (266/91) e quella sulle associazioni di promozione sociale (383/2000), oltre che buona parte della “legge sulle Onlus” (460/97).
SECONDO: vengono raggruppati in un solo testo tutte le tipologie di quelli che da ora in poi si dovranno chiamare Enti del Terzo settore (Ets). Ecco le sette nuove tipologie: organizzazioni di volontariato (che dovranno aggiungere Odv alla loro denominazione); associazioni di promozione sociale (Aps); imprese sociali (incluse le attuali cooperative sociali), per le quali si rimanda a un decreto legislativo a parte; enti filantropici; reti associative; società di mutuo soccorso; altri enti (associazioni riconosciute e non, fondazioni, enti di carattere privato senza scopo di lucro diversi dalle società).
Restano dunque fuori dal nuovo universo degli Ets, tra gli altri: le amministrazioni pubbliche, le fondazioni di origine bancaria, i partiti, i sindacati, le associazioni professionali, di categoria e di datori di lavoro. Mentre per gli enti religiosi il Codice si applicherà limitatamente alle attività di interesse generale di cui all’esempio successivo.
Gli Enti del Terzo settore saranno obbligati, per definirsi tali, all’iscrizione al Registro unico nazionale del Terzo settore (già denominato Runts...), che farà quindi pulizia dei vari elenchi oggi esistenti. Il Registro avrà sede presso il ministero delle Politiche sociali, ma sarà gestito e aggiornato a livello regionale. Viene infine costituito, presso lo stesso ministero, il Consiglio nazionale del Terzo settore, nuovo organismo di una trentina di componenti (senza alcun compenso) che sarà tra l’altro l’organo consultivo per l’armonizzazione legislativa dell’intera materia.
TERZO: vengono definite in un unico elenco riportato all’articolo 5 le “attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” che “in via esclusiva o principale” sono esercitati dagli Enti del Terzo settore. Si tratta di un elenco, dichiaratamente aggiornabile, che “riordina” appunto le attività consuete del non profit (dalla sanità all’assistenza, dall’istruzione all’ambiente) e ne aggiunge alcune emerse negli ultimi anni (housing, agricoltura sociale, legalità, commercio equo ecc.).
Gli Ets, con l’iscrizione al registro, saranno tenuti al rispetto di vari obblighi riguardanti la democrazia interna, la trasparenza nei bilanci, i rapporti di lavoro e i relativi stipendi, l’assicurazione dei volontari, la destinazione degli eventuali utili.
Ma potranno accedere anche a una serie di esenzioni e vantaggi economici previsti dalla riforma: circa 200 milioni nei prossimi tre anni sotto forma, ad esempio, di incentivi fiscali maggiorati (per le associazioni, per i donatori e per gli investitori nelle imprese sociali), di risorse del nuovo Fondo progetti innovativi, di lancio dei “Social bonus” e dei “Titoli di solidarietà”.
Senza contare che diventano per la prima volta esplicite in una legge alcune indicazioni alle pubbliche amministrazioni: come cedere senza oneri alle associazioni beni mobili o immobili per manifestazioni, o in comodato gratuito come sedi o a canone agevolato per la riqualificazione; o incentivare la cultura del volontariato (soprattutto nelle scuole): o infine coinvolgere gli Ets sia nella programmazione che nella gestione di servizi sociali, nel caso di Odv e Aps, “se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato”.
Una parte consistente del Codice (sei articoli, dal 61 al 66, pari al 14% dell’estensione del testo) è dedicata ai Centri di servizio per il volontariato (C.S.V), interessati da una profonda revisione in chiave evolutiva che ne riconosce le funzioni svolte nei primi 20 anni della loro esistenza e le adegua al nuovo scenario. A cominciare dall’allargamento della platea a cui i CSV dovranno prestare servizi, che coinciderà con tutti i “volontari negli Enti del Terzo settore”, e non più solo con quelli delle organizzazioni di volontariato definite dalla legge 266/91 (anche se in realtà era già cospicua la quota di realtà del terzo settore “servite” in questi anni).
I Centri – che dovranno essere di nuovo accreditati – verranno governati da un inedito Organismo nazionale di controllo (Onc) e dalle sue articolazioni territoriali (Otc), le cui maggioranze saranno detenute dalle fondazioni di origine bancaria. Sarà inoltre ridotto il numero complessivo dei Centri in riferimento ad alcuni parametri territoriali. Nella governance dei CSV potranno entrare tutti gli Ets (secondo il cosiddetto principio delle “porte aperte”), lasciando però al volontariato la maggioranza nelle assemblee. Saranno previsti nuovi criteri di incompatibilità tra la carica di presidente di un CSV e altre cariche, ad esempio ministro, parlamentare, assessore o consigliere regionale o di comuni oltre i 15 mila abitanti. I CSV, insieme alle Reti associative nazionali, potranno essere autorizzati dal ministero delle Politiche sociali all’“autocontrollo degli Enti del Terzo settore”. Viene infine centralizzato e ripartito a livello nazionale il fondo per il funzionamento dei CSV, che continuerà ad essere alimentato da una parte degli utili delle fondazioni di origine bancaria e da un credito di imposta fino a 10 milioni, a regime, che queste ultime si vedranno riconoscere ogni anno.
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martedì 10 settembre 2019

Basilicata, 10 comuni ad alto rischio Radon

Sono dieci, in particolare, i comuni in cui esiste un rischio elevato con valori superiori a 400 becquerel per metro cubo. Si tratta di Maratea, Lagonegro, Marsicovetere, Sant’Angelo le Fratte, San Fele, Rotondella, Stigliano, Campomaggiore, Rionero e Forenza.


Rilevati valori oltre 400 becquerel/mc superiori a quelli dettati dalla direttiva Ue

Un tema ancora poco conosciuto quello dei rischi per la salute legati al gas radon. Dopo l’allarme di Lagonegro si accentua la sensibilità di enti scolastici e genitori verso gli ipotetici pericoli per la contaminazione radioattiva, seppur di bassa intensità. E in attesa delle «raccomandazioni» e della road map che varerà la Regione, viene rivalutata con attenzione un’in - dagine dell’Arpab avviata nell’autunno del 2013 e conclusa nel mese di luglio del 2018 relativa ad analisi eseguite in tutti i comuni lucani. La normativa che vige al momento in Italia è quella del decreto legislativo 241 del 2000 in cui i valori raccomandati sono di 500 becquerel a metro cubo, in contrasto con la direttiva europea in vigore già dal 2014 (ma non ancora recepita nel nostro Paese) la quale prevede che la soglia di esposizione al radon non dovrebbe superare i 300 becquerel per metro cubo. Ancora più restrittiva l’Organizzazione mondiale della sanità che stabilisce un valore non superiore a 100 becquerel per metro cubo. Lo studio dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente mostra come nel 70 per cento dei comuni lucani le concentrazioni di radon sono sempre inferiori ai 200 becquerel per metro cubo, nonostante in alcuni casi sono state esaminate molte scuole (come per esempio a Potenza dove le misurazioni di radon hanno riguardato 15 edifici scolastici).

Segue un gruppo di comuni che corrisponde al 14 per cento dove si superano i 200 becquerel per metro cubo. Tra questi comuni figura Matera dove i valori più alti sono stati rilevati nella zona dei Sassi. Nel restante 16 per cento dei comuni sono stati rilevati valori superiori a 300 becquerel per metro cubo, e in circa la metà di questi comuni si superano anche i 400 becquerel a metro cubo. Le zone calde , dal punto di vista del radon, sono il Lagonegrese, una parte della Val d’Agri e del Vulture–Melfese e alcune aree dell’entroterra materano. Sono dieci, in particolare, i comuni in cui esiste un rischio elevato con valori superiori a 400 becquerel per metro cubo. Si tratta di Maratea, Lagonegro, Marsicovetere, Sant’Angelo le Fratte, San Fele, Rotondella, Stigliano, Campomaggiore, Rionero e Forenza. In una parte di questi comuni sono state trovate strutture scolastiche in cui la media annuale di concentrazione del radon ha superato il valore soglia di 500 becquerel per metro cubo, motivo per cui è stato notificato l’obbligo di eseguire i necessari interventi di risanamento nell’arco dei tre anni successivi all’esito delle analisi. L’indagine dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ha coperto tutti i 131 comuni della Basilicata, interessando 268 edifici scolastici e 32 luoghi di lavoro, per un totale di 300 strutture. In ogni territorio comunale sono state generalmente esaminate almeno il 50 per cento delle scuole esistenti, dando priorità alle scuole dell’obbligo e dell’infanzia