DE FILIPPO, Peppino (Giuseppe).
- Fratello di Titina e di Edoardo, nacque a Napoli il 24 ag. 1903 da Edoardo
(Eduardo) Scarpetta che lo ebbe da una relazione extraconiugale con la nipote
Luisa De Filippo. Fu tenuto a balia presso una contadina di Caivano, dove
rimase circa cinque anni, poi fu ricondotto a Napoli "rosso e tondo come
una mela, pieno di salute". Secondo i suoi ricordi, il battesimo del
palcoscenico avvenne nel febbraio 1909 in una commedia di V. Di Napoli Vita
rappresentata dalla compagnia dialettale napoletana di Eduardo Scarpetta.
Il bambino, accompagnato
dalla madre che assisteva o partecipava agli spettacoli scarpettiani, si
mescolava agli attori per gioco, assimilando prontamente il mestiere. Scriverà
il D. in età matura: "Eduardo Scarpetta fu per mia madre una corda messale
al collo dal destino e pronta a strozzarla al minimo segno di fuga. Di
temperamento calmo, quieto e di sentimenti semplici, mia madre fu facilissima
preda di quell'uomo fatto davvero di pochi scrupoli" e ammetterà "che
in rispetto a certe leggi del suo paese e a dispetto delle buone regole di
umana pietà, dovette sempre vergognarsi del suo stato civile". Lo
"zio" (così doveva chiamarlo) si degnava di lasciare villa Santarella
soltanto per trattenersi con Luisa e badava poco al D., il cui affetto si
concentrava sulla madre, non senza, sulle prime, una sensazione di rimpianto
per la balia e per il suo piccolo mondo paesano.
Fu poi la volta
dell'insegnamento del pianoforte voluto dal padre in previsione di un eventuale
impiego nelle orchestrine ambulanti e al quale si adattò malvolentieri. Messo
nel collegio Chierchia nel 1911 su decisione dello Scarpetta, vi rimase due
anni completandovi il ciclo elementare e il primo anno della scuola tecnica e
distinguendosi per lo scarso profitto e l'insofferenza alla disciplina. Nel
1915 fu accolto stabilmente nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, ove alternò
l'interpretazione di parti minime con l'attività del buttafuori. Nel 1920 venne
scritturato come generico nella compagnia di prosa del Molinari del teatro
Nuovo, nella quale si sentì più libero per la mentalità aperta e conciliante
dei colleghi e per l'ampia scelta del repertorio (vi figuravano testi di S. Di
Giacomo, F. Russo, L. Bovio, E. Murolo). Successivamente il D. si scritturò,
pure come generico, nella formazione dialettale di Francesco Corbinci,
debuttando al teatro Cavour con sfortuna, ma riabilitandosi con Il
romanzo di un farmacista povero, riduzione dal francese di E. Scarpetta: la
parte del servitore, ignorante e baldanzoso, ebbe un caloroso successo di
pubblico e lo inorgoglì (qui conobbe Adele Carloni, attrice giovane, e la
corteggiò, ma senza legarsi a lei). Sempre col ruolo di generico fu attivo
presso la compagnia di riviste Amodio, avendo debuttato con Tutto color
di rosa... ! di Giulio Trevisani; sostenne una breve
stagione teatrale in Sicilia con la compagnia di operette di Peppino Villani al
principio del 1923, poi fu lontano dalle scene perché in servizio di leva dal
marzo 1923 al febbraio 1925.
Congedato, fu scritturato
col solito ruolo e come tuttofare nella compagnia di Nicola Urcioli e debuttò
al teatro Comunale di Chieti; qui sperimentò una serie di insuccessi (non
piacque nemmeno Nu turco napolitano, riduzione dal francese di E.
Scarpetta) per il mancato affiatamento degli attori ma soprattutto per la
carenza di comunicativa del primo attore; a Falconara il pubblico
applaudì Le due orfanelle, riduzione dal francese di Achille
Consalvi e il "recital canoro" che lo seguì (il D.
"strimpellava" il pianoforte). Nel novembre 1925, in un periodo di
forzata inattività, fu testimone imperturbabile della malattia e della morte
del padre, lasciandone una descrizione minuziosa e impietosa ("Don
Eduardo... se ne morì nella completa indifferenza di quasi tutti i suoi
familiari"). Il D. entrò quindi nella compagnia napoletana di prosa di
Salvatore De Muto, da lui caldamente stimato. La rappresentazione più
festeggiata, l'8 sett. 1926 al teatro Ercolano di Resina, fu costituita dalla
farsa Il suicidio di Pulcinella di Antonio Petito, in cui si
doveva recitare anche a soggetto: per il D. la parte di Nicolino fu l'occasione
per sperimentare a fondo le proprie capacità di mimo e di improvvisatore.
Ai primi del 1927 subentrò
al fratello nella compagnia di V. Scarpetta e si esibì al teatro Manzoni di
Roma. il cui pubblico lo gradì; al teatro dei Fiorentini di Napoli il D. ed Eduardo,
riconciliati dopo i malintesi seguiti all'allontanamento spontaneo di
quest'ultimo (tornato "all'ovile" dopo il fallito debutto con la
compagnia Carini-Glek), recitarono ne La rivista che... non
piacerà di Michele Galdieri (24 luglio 1927): "un consenso di
pubblico e di critica eccezionale". Il 10 ott. 1929 il D. sposò a Napoli
la Carloni: ne nascerà un figlio l'anno successivo, Luigi, che seguirà le orme
paterne. I due fratelli, scritturati nel 1930 nella compagnia di prosa Mofinari
del teatro Nuovo convinsero il capocomico ad inserire nello spettacolo, come
ditta a parte, un gruppo di otto attori, guidati da loro, che assunse il nome
di Ribalta gaia. Il successo ottenuto dallo spettacolo di rivista Pulcinella
principe in sogno, illusioni colorate di Kokasse e Tricot (pseudonimi di
Mario Mangini e di Eduardo) ricavate dai versi di Ugo Ricci (teatro Olympia, 1°
luglio 1930, cinque parti diverse tra cui quella di Pulcinella), fu superato
dal consenso tributato all'atto unico Sik-Sik, l'artefice
magico di Tricot (il D. vi interpretava la parte del
"compare" di lavoro). Poiché l'impresario Aulicino desiderava
impegnarli per gli spettacoli misti dell'inverno 1930-31, i due fratelli lo
convinsero ad inserire un programma scritto interamente dal D. sulla misura
delle sue ormai consolidate capacità d'interprete e composto dalle farse Tutti
uniti canteremo e Don Rafele 'o trumbone; il 4 apr. 1931,
in apertura delle recite della compagnia diretta da Eduardo sempre presso il
teatro Nuovo, lo spettacolo ebbe successo (nonostante qualche prova precedente,
il D. considerò tale data quella del suo vero debutto come autore; l'attore
riscosse consensi soprattutto come Nicola nel secondo lavoro). A metà estate di
quell'anno, con la medesima ditta Ribalta gaia venne costituito un nuovo gruppo
di attori previo accordo con Titina e col marito Pietro Carloni; il 20 luglio
al teatro Palazzo di Montecatini, davanti a un pubblico freddo e distante, si
ebbe un insuccesso: in programma Il chiavino di Carlo Mauro
(parte del marito), Un po' di lirica ci vuole... ! (parte
del maestro) e Don Rafele 'o trumbone (parte di Nicola). Al
teatro Puccini di Milano, con queste farse, non piacque neanche Sik-Sik, l'artefice
magico, ma il successo, inaspettato, arrivò al teatro Excelsior.
Alla fine di dicembre i due
fratelli sottoscrissero un breve impegno per avanspettacolo della durata di una
sola settimana, come prova, con la direzione del cinema-teatro Kursaal di
Napoli: riuniti nel cosiddetto Teatro umoristico, debuttarono la sera del 25
dicembre con le scene umoristiche di Tricot Natale in casa Cupiello (ilD.
vi sosteneva la parte di Nennillo). Per impegno contrattuale dovevano mettere
in scena una novità in un atto ogni settimana, in coincidenza col cambiamento
del programma cinematografico, ordinariamente il lunedì. A quel periodo
risalgono i primi dissapori con il fratello, che il D. attribuirà al difficile
carattere di Eduardo.
Il pubblico, da parte sua,
apprezzò la recitazione omogenea, accurata, mai volgare: sulla stessa Comoedia,
nell'estate 1932, comparve il primo articolo a loro espressamente dedicato: la
comicità del D. fu definita come più segnata e più mossa di quella di Eduardo
(si aggiunga che gli "spettacolini" diventarono un avvenimento
culturale cittadino: vennero ad ammirarli, tra gli altri, R. Bracco e S. Di
Giacomo).Invitati dall'impresario Ardovino a svolgere una stagione regolare per
l'anno inaugurale del restaurato teatro Sannazaro, i due fratelli insieme con
Titina si risolsero per una formazione ad indirizzo prevalentemente
antitradizionale, e si dettero a cercare i migliori attori dialettali
disponibili sulla piazza. In quel periodo il concittadino Giuseppe Amato offrì
ai due la possibilità di partecipare, a Roma, nel settembre, al film
comico-musicale Tre uomini in frak di Mario Bonnard. Con
l'anticipo percepito essi poterono affrontare le prime spese per la
costituzione della compagnia e per la composizione dei bozzetti delle scene
affidati a Giovanni Brancaccio. Eduardo e il D. recitavano sul set, a Roma, di
giorno, provavano, sul palcoscenico, a Napoli, di sera. Finita la lavorazione
del film, durata poco più di 20 giorni, i due fratelli poterono dedicarsi al
debutto che avvenne la sera dell'8 ottobre, con Chi è cchiù felice 'e
me... !?disillusioni di Mario Molise (pseudonimo di Eduardo)
e Amori e balestre dialoghetti umoristici di Giuseppe Bertucci
(pseudonimo del D.): questi interpretava nel primo lavoro la parte di Nicola,
nel secondo quella di Scarrafone; il gruppo, con Eduardo direttore artistico,
il D. amministratore e Titina prima attrice, conserverà la denominazione di
Compagnia del "Teatro umoristico I De Filippo".
Il D. ci fornisce
interessanti particolari sul lavoro comune dei due fratelli: "Per
scriverla, una commedia nuova, poiché l'avevamo ben'bene discussa per tempo, ci
impiegavamo quattro o cinque giorni al massimo, ma pur quando era stata tutta
scritta, il lavoro non si poteva considerare terminato. V'erano le modifiche
che nascevano alla prova dei fatti, cioè, alla lettura in palcoscenico o al primo
giorno di prova con la partecipazione degli attori. E fino all'ultimo giorno in
cui la si provava, poteva capitare che vi era ancora qualcosa da aggiungere o
da omettere. Infine, neanche alla prima rappresentazione quel testo restava
quello dell'ultima prova; alla luce della ribalta, durante la recita, alla
prova della magica.atmosfera che proveniva dal calore del pubblico, qualche
battuta e perfino qualche scena intera, potevano denunciare la necessità di
dover essere rimaneggiate".
I successi continuarono
rapidi: il 20 ottobre di Quaranta... ma non li dimostra,
commedia scritta dal D. e da Titina (egli divertì nella parte di Bebè; qualcuno
volle vedere, nella figura di don Pasquale Di Domenico un'allusione a
Mussolini, ma il D. sostenne sempre di non aver avuto intenzioni satiriche), il
29 de L'ultimo bottone, riduzione dallo spagnolo del Molise, il 10
novembre di Ditegli sempre di sì pure del Molise, il 18
de La lettera di mammà, colorita commedia del Bertucci e di
Mascaria (Maria Scarpetta) che può considerarsi come il primo autentico
successo del D. autore, il 16 dicembre di A Coperchia è caduta una
stella del Bertucci.
R. Simoni ne consacrerà la
fama, recensendo i tre fratelli, per la prima volta, sul Corriere della
sera (16 marzo 1934), a proposito di una ripresa di Chi è più
felice di me ? e Don Raffaele il trombone (teatro
Odeon di Milano): dopo averne richiamato l'ascendenza sancarliniana, il critico
scopriva nel D. "una semplicità calma e attenta, entro la quale si muove,
e lo si vede dagli sguardi e dalle increspazioni del viso, una successione di
inquietudini sbalordite".
Questi, però, non era
tranquillo: secondo lui Eduardo pretendeva di disporre a suo modo dei lavori
teatrali nati da una intesa comune e mal sopportava la sua personalità e il suo
successo. M. Camerini li diresse nel film Il cappello a tre punte e
la critica accolse positivamente la prestazione del D. che vi figurava come
Luca (1935). Titina e Peppino scrissero ancora... Ma c'è papà! che
al politeama napoletano, il 17 ott. 1935, s'impose al pubblico (frequenti
applausi a scena aperta) e alla critica. Il 26 ottobre, sempre allo stesso
teatro, fu la volta di Liolà, riduzione in napoletano del D. da L.
Pirandello, una delle tappe più significative nell'itinerario della compagnia:
egli stesso, che fu il protagonista, seppe temperare la sua esuberante comicità
"nei toni spavaldi e canori" di Liolà in un'atmosfera carica di
colori, suoni e profumi che inebriarono gli spettatori mai stanchi di
applaudire a scena aperta e a sipario calato. Il 14 febbr. 1936 al teatro dei
Fiorentini andò in scena, subito dopo l'atto unico di Dino Falconi Oie
Marì oie Marì, versione in napoletano del D., Il berretto a
sonagli di L. Pirandello, versione in napoletano di Eduardo (il D.,
nonostante si ritenesse sacrificato nella parte del commissario Spanò che lo
costringeva a fare la "statua" durante il monologo di Ciampa del II
atto, fu applaudito calorosamente). Nel dicembre, presso il teatro Quirino di
Roma si effettuavano le letture del copione L'abito nuovo su
scenario di L. Pirandello, dialogato e concertato da Eduardo, quando il
drammaturgo siciliano venne improvvisamente a mancare; il testo fu congelato
fino al 1° apr. 1937, giorno in cui fu rappresentato al teatro Manzoni di
Milano, senza troppa convinzione da parte del D. che vi ricopriva una parte di
fianco, quella di Concettino. Raffaello Matàrazzo lo diresse, accanto a Titina,
nel film Sono stato io! dalla commedia di Paola Riccora Sarà
stato Giovannino, già portata al successo dall'attore (1937, parte di
Caflo, "disegnata con saporita gagliofferia". Il 31 marzo 1938 andò
in scena, al teatro Mercadante di Napoli, Un povero ragazzo, da lui
scritto e interpretato come Andrea; dopo la fortunosa lavorazione de L'amor
mio non muore di Giuseppe Amato, film superficiale uscito nel 1938, ad
ottenere un vero successo il D. dovette attendere l'8 maggio 1940, quando al
Quirino di Roma rivestì la parte di Vincenzino Esposito in A che
servono questi quattrini? di Armando Curcio, Eduardo e il D. stesso.
Durante il corso delle repliche della commedia si accesero però tra lui e il
fratello forti contrasti sul modo di interpretarla. L'amarezza per questo
episodio gli era attenuata dall'affetto nutrito per la giovane e bella attrice
Lidia Maresca (in arte Lidia Martora) da lui conosciuta in occasione del suo
debutto, nel 1938, al teatro Piccinni di Bari, in una ripresa di A
Coperchia è caduta una stella: fu una relazione intensa e duratura che
segnò l'incrinatura e la fine dei rapporti con la moglie e che fu motivo di
dissapore con la sorella che, difatti, era uscita dalla compagnia nel 1939. Un
successo entusiastico lo riscosse nella sua commedia Non è vero... ma
ci credo !, andata in scena al teatro Argentina di Roma il 10 febbr. 1941
(parte di Alberto Santamaria) e nella trasposizione cinematografica di A
che servono questi quattrini? la parte di Esodo Pratelli (1942) che lo
vide, come sulla scena, attore impeccabile; gli anni di guerra gli riservarono
anche talune delusioni, come l'esito di critica dei due film di C. L. Bragaglia Casanova
farebbe così e Non ti pago! (1942), in cui il regista
non volle o non seppe valorizzare il gioco dei gesti e delle battute, e,
impensatamente, del film di M. Bonnard Campo de'fiori (1943),
ma, soprattutto, l'insuccesso della farsa tragica di U. Betti Il
diluvio al teatro Argentina di Roma, il 28 genn. 1943, in cui il
pubblico rimase in assoluto silenzio ad ogni calare di sipario. Eduardo, poi,
lo diresse in Ti conosco, mascherinain cui nella parte
di Celestino, sin dall'affollatissima "prinia" romana del 19 febbr.
1944, ottenne il consenso del pubblico.
Frattanto, dopo la morte
della madre (21 giugno) e un'ultima risolutiva lite accaduta nel novembre,
maturò la definitiva separazione artistica tra il D. ed Eduardo, concordata per
il 10 dic. 1944, giorno in cui cessava il contratto con il cinema-teatro Diana
a Napoli. Al D. venne incontro l'impresario Remigio Paone, che gli consentì di
partecipare alla seconda edizione di Imputati... alziamoci!,
rivista di Michele Galdieri (teatro Quattro Fontane di Roma, 23 dic. 1944), e
di tenere banco nel fortunato quadro Lungo pranzo di Natale.
Separatosi definitivamente dalla Carloni, egli portò poi a maturazione l'idea
di un suo teatro, non del tutto alieno da intenzioni antagonistiche nei
confronti del fratello.
Così racconterà: "...
un genere teatrale assolutamente dialettale mi pareva sempre più superato e
limitato. Superato in quanto al linguaggio e limitato in quanto al suo spazio
vitale. Cominciai, allora, a pensare ad una forma di teatro capace di esprimersi
mediante un linguaggio moderno come quello di tutti i giorni, con tutti i
caratteri e le abitudini della società italiana particolarmente del dopoguerra
su base tradizionalmente comica nella quale, quà e là, come lo sfarfallio di
una luce riflessa, fossero affiorati i piccoli e grandi drammi della vita
quotidiana del nostro Paese". Si associò pertanto ad attori che sapessero
affrontare un teatro in lingua con una duttilità espressiva che trascolorasse,
all'occorrenza, negli accenti dei vari dialetti: un linguaggio caratterizzato
da impurità ed inflessioni, ma caldo e festoso.
La nuova gestione
capocomicale ebbe inizio a Milano: la Compagnia del Teatro italiano debuttò al
teatro Olimpia il 24 ag. 1945 con I casi sono due ! di A.
Curcio, commedia adattata al nuovo stile. La critica registrò le buone
intenzioni dell'iniziativa, ma vi ravvisò soltanto una dissimulata
continuazione dei teatro dialettale. Un successo incontrastato fu ottenuto,
comunque, con Quelle giornate, commedia scritta in collaborazione
dal D. e Mascaria (teatro Valle di Roma, 24 apr. 1946): il personaggio di
Ernesto Sambuchino, l'italiano medio voltagabbana, costretto dagli eventi a
trovarsi a contatto di gomito, in una pensione romana, con sfollati provenienti
da diverse città italiane, rimase a lungo nelle citazioni di costume e segnò
l'inizio della ritrovata fortuna del D. autore e attore. Il 25 ottobre fu
Goffredo Cortone in Caro nome!, pure del D. e Mascaria, sempre al
teatro Valle. La rappresentazione di Quel bandito sono io! del
D. (teatro Mercadante di Napoli, 21 ott. 1947, doppia parte di Desiderio
Pellegrino e di Alberto Siracusa), fu costellata da scroscianti risate sino al
finale serio e moraleggiante accolto, però, con qualche fischio, che costrinse
l'autore a ripresentare la commedia "riveduta e corretta" alla terza
sera di recite, per poter godere del consenso indiscusso della platea.
Cominciarono allora le
incomprensioni, gli equivoci e perfino le liti, seguite da minacce di duello,
con una parte dei critici (un'altra parte preferì continuare a vedere
soprattutto l'attore e a segnalarne la sua costante ricerca di affinamento
espressivo). Così da una parte R. Carrieri insinuò, nel 1947, che la
"decadenza di Peppino ebbe inizio il giorno in cui piantò Eduardo e Titina...
Non sopportava il successo associato e si sentiva come defraudato",
dall'altra A. Fiocco, nel 1949, asserì che era "un clown di gran classe e
il più vicino allo spirito della Commedia dell'arte... Chi chiede al comico un
sottofondo di idee, una elaborazione sotterranea, non vada a cercarli da
Peppino, perché non li troverà".
Nel 1950 l'attendeva forse
la sua più matura prova cinematografica: invitato da A. Lattuada e F. Fellini,
impersonò il capocomico di una compagnia di varietà, vanesio e
incorreggibilmente donnaiolo, in Luci del varietà. Iniziò così una
fitta serie di film, diversi accanto a Totò, di valore discontinuo in quanto le
sue colorite caratterizzazioni erano finalizzate esclusivamente al successo
commerciale, ma qualcuno destinato ad essere ricordato: fu il marito tradito e
irresoluto in Cameriera bella presenza offresi di G. Pastina
(1951), il parente importuno e petulante ma innocuo in Signori, in
carrozza! di L. Zampa (1951), il pretore nostalgico e bonario in Un
giorno in pretura di Steno (1953), il grottesco e maligno protagonista
in Ferdinando I, re di Napoli di G. Franciolini
(1959), il padre di famiglia iti Arrangiatevi! di M. Bolognini
(1959), il coprotagonista in Policarpo ufficiale di scrittura di
M. Soldati per cui ricevette la Grolla d'oro nel 1959- Quanto alla novità di
Emesto Grassi A me la libertà (teatro Mercadante di Napoli, 19
apr. 1951, parte dell'avvocato), Corrado Alvaro, che la vide al teatro Quirino
di Roma, a polemica ormai sopita, giudicò implicitamente il D. come colui che
non aveva ancora condotto razionalmente il tentativo di uscire dal confine
regionale, altrimenti avrebbe potuto offrire un teatro rispecchiante la stessa
formazione della società italiana nelle nostre grandi città, specialmente delle
classi medie. Da allora, comunque, l'autore non parve avere più ambizioni
ideologiche.
Nel 1956, con la
trasmissione dei due atti unici Aria paesana e Pranziamo
insieme, ebbe inizio la copiosissima attività televisiva del D., che si
articolò anche attraverso cicli di farse e commedie, in parte del suo antico
repertorio, le cui registrazioni giunsero fino alla vigilia della morte. Il 21
dic. 1956 al teatro Olimpia di Milano andò in scena Le metamorfosi di
un venditore ambulante, farsa all'antica da un tema dell'"arte",
con musiche dell'autore a partire dall'edizione del 3 dic. 1959: una data
fondamentale nella biografia artistica del De Filippo.
Dal fortunato
canovaccio Le metamorfosi di Pulcinella, più volte pubblicato, le
cui origini potrebbero ravvivarsi in una pasquinata del 1516 ripresa sulle
piazze dai commedianti dell'arte che ne rappresentarono le esilaranti e
movimentate trasformazioni, il D. ricavò una commedia ambientata nel 1890 con
mutamenti di nomi e costumi e con aggiunte di personaggi, quali quelli delle
due cantatrici Marilena e Fragoletta, delle tre comiche (lontane parenti di
quelle goldoniane), di Angiolino (discendente di Coviello e di Arlecchino) o
del Marchesino. Il personaggio centrale è Peppino Sarachino (interpretato
dall'autore), non più maschera, con un linguaggio non più pulcinellesco,
ma con una chiara reminiscenza della fame e dei caotici banchetti della
commedia dell'arte; egli si dà da fare per favorire le nozze di due giovani e,
per liberare la ragazza tenuta prigioniera da un vecchio zio avaro, si
trasforma successivamente in filosofo, in statua, in bambino e in mummia (lo
spettacolo sarà presentato nel 1963 al teatro Sarah-Bernhardt di Parigi e il 7
apr. 1964, nel quadro del Festival mondiale dei teatro, all'Aldwych Theatre di
Londra, dove il pubblico esaurirà la sala e la critica loderà particolarmente
la musica e il ritmo da balletto a partire dal II atto sino al finale).
Nel 1962, nel film Boccaccio
'70, interpretò l'episodio Le tentazioni del dottor Antonio di
F. Fellini, in cui dette corpo, in un'incisiva caratterizzazione, alle ubbie,
ai rancori, ai desideri repressi di certi censori inveleniti che due anni prima
avevano avanzato pesanti riserve sulla moralità e sul buon gusto de La
dolce vita dello stesso regista.
Alcuni anni dopo, per uno
spettacolo televisivo di varietà, creò un personaggio, Pappagone (da lui stesso
interpretato), che ebbe una vasta popolarità (autunno-inverno 1966-67). Dopo
essersi cimentato nel repertorio molieriano (protagonista de L'avaro nel
1964: e Geronte ne Le furberie di Scapino nel 1969) e goldoniano
(don Marzio ne La bottega del caffènel 1966), il D. concluse la sua
attività di autore, se si esclude una successiva serie di atti unici di
secondaria importanza, con Come finì don Ferdinando Ruoppolo (teatro
delle Arti di Roma - alla gestione del quale, dopo averne curato
l'ammodernamento, rimase legato dal giugno 1967 al giugno 1969 -, 28 febbraio
1969, parte del protagonista), sempre alla direzione della Compagnia del teatro
italiano: un bozzetto di costume che annovera i momenti migliori nel surrealismo
di un'apparizione spiritica congeniale alla sua vena più genuina. Dopo la morte
della Maresca, avvenuta in una clinica romana il 23 apr. 1971 tre ore dopo il
matrimonio "in extremis" con il D. (che aveva ottenuto il divorzio
dalla Carloni qualche giorno prima), questi pubblicò, in appendice alla quarta
edizione del volume di versi Paese mio dedicato al figlio ed
edito per la prima volta nel 1966, Pagine per Lidia: contengono
diciassette poesie "in memoriam", accorate, dimesse, arieggianti
talvolta la maniera di S. Di Giacomo, testimonianze di un dolore intenso e
contenuto (in particolare Aprile e Pe' sta vicino a te
!). Il 25 ott. 1974, presso il teatro Mediterraneo di Napoli, curò la regia
dell'opera buffa Lo frate 'nnammurato di G. B. Pergolesi nell'ambito
del XVII Autunno musicale napoletano: la rappresentazione, in cui i recitativi
al clavicembalo furono sostituiti da un dialogo rapido e ammodernato, risultò
piacevole nonostante le ovvie riserve di carattere musicologico. Nel 1976 il D.
pubblicò un libro di ricordi che suscitò commenti non sempre benevoli, Una
famiglia difficile, un racconto relativo al periodo dalla nascita ai primi
anni del secondo dopoguerra, prezioso non tanto per l'esattezza cronologica
quanto per la spregiudicata analisi dei sentimenti e dei comportamenti dei
familiari, e per le minuziose e colorite descrizioni ambientali, il quale, con
i cenni contenuti nell'introduzione alle Farse e commedie e
in Strette di mano (1974), in parte sotto forma di articoli
già pubblicati su Il Messaggero di Roma, costituisce la sua
autobiografia. Il 21 genn. 1977 dette alla televisione una struggente
interpretazione del vecchio ne Il guardiano di H. Pinter, con
la regia di Edino Fenoglio il quale aveva ambientato la vicenda a Milano e
trasformato il "tramp" in un emigrato napoletano, cui l'attore prestò
un volto corrugato e immiserito, un gestire stanco e rassegnato, segno di una
totale emarginazione dalla vita. più che dalla società. Dopo aver sposato
l'attrice Leila (Lelia) Mangano a Sali Vercellese il 4 giugno, riprese, nel
quadro di un'attività ormai ridotta, Non è vero... ma ci
credo! al teatro Mancinelli di Orvieto il 20 dic. 1977 e al teatro
delle Arti di Roma dal 21 febbr. al 19 marzo 1978, accomiatandosi dal pubblico
delle platee nella parte di Gervasio Savastani.
Una grave malattia lo
costrinse prima al riposo, interrotto, nel maggio 1979, dalla registrazione di
un ciclo di brevi intrattenimenti televisivi dal titolo Buona sera con... Peppino
De Filippo (in onda dal 10 dic. 1979 al 6 genn. 1980), poi al ricovero
nella clinica Sanatrix di Roma dove, dopo qualche settimana, spirò il 27 genn.
1980.
A giudicare il teatro del D.
può giovare la presentazione delle sue Farse e commedie, in cui le
paragona a pezzi di pane caldo appena uscito dal forno, da aspirare
profondamente come "una boccata d'aria pura": non idee, dunque, ma
sentimenti, espressi in modo genuino, semplice, mai volgare o ridondante,
calati in situazioni della più ovvia quotidianità, dai meccanismi rapidi e
incalzanti, con qualche venatura patetica ma quasi sempre con esiti di comicità
spensierata nei primi lavori, assorta e pungente nei successivi, con
l'eccezione de Le metamorfosi che segnarono un festoso ritorno
alle radici del teatro napoletano. Più articolato può risultare il giudizio sul
D. attore: c'è chi ha visto un interprete che inventava la commedia scena per
scena, la concretava e la faceva impazzire con una serie di invenzioni
burlesche che all'azione vera non erano necessarie (R. Simoni), un grande
attore sempre più grande di ciò che rappresentava (S. D'Amico), un comico
angoloso e aspro che dei mali della vita si serviva per far ridere (A. Fiocco),
un moralista sconfitto e incattivito (G. Prosperi); attore di razza, Peppino è
stato tutto questo e non lo si può immaginare senza i funambolismi della
Commedia dell'arte, senza gli umori agrodolci della tradizione sancarliniana,
senza il fiuto istintivo dei gusti del suo pubblico.
Bibl.: Necrol. in Il
Messaggero, 28 genn. 1980. Cfr. inoltre: Il Mattino, 24-25
luglio 1927; 5 aprile, 26-27 dic. 1931; 9, 21, 30 ott., 11, 19 novembre, 17
dic. 1932; 18, 27 ott. 1935; 15 febbr. 1936; 31 marzo 1938; 26 ott. 1974; Comoedia (Milano),
15 novembre-15 dic. 1930; 15 giugno-15 luglio 1932; Scenario (Roma),
ottobre 1933; febbraio 1943; 16-31 luglio 1951; Il Messaggero, 8
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1971; 23 febbr., 19 marzo 1978; 10 dic. 1979; 6 genn. 1980; Risorg. liber.
(Roma), 24 dic. 1944; Omnibus (Milano), 2 giugno 1947; Risorg.
(Napoli), 22 ott. 1947; La Fiera letter., 18 dic. 1949; Il
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1951; Corr. della sera, 22 dic. 1956; La Stampa,
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