Su un poggio a circa 113 metri s.l.m. dell’entroterra collinare che si trova tra Via Casalbordino e Madonna degli Angeli, è situato un luogo di culto di tradizione popolare e tra i più antichi del capoluogo, intitolato a San Fele, un’abbreviazione anch’essa popolare del nome Felice. Nella “Bibliotheca Sanctorum” (vol. V, col. 547, Roma, Città Nuova Editrice, 1964), si trovano le seguenti notizie del beato Felice di Montecassino, “venerato a Chieti”. Le poche notizie che lo riguardano sono state tramandate dall’abate di Montecassino, Desiderio, divenuto Papa Vittore III (1086-1087). Si legge nel testo citato: “Trovandosi egli a Chieti, nel 1052, vide nella cattedrale di quella città un altare dedicato ad un beato. Il vescovo (Arnolfo?, n.d.r.), al quale Desiderio si rivolse per sapere chi fosse, gli rispose che si trattava di Felice monaco di Montecassino, mandato dal suo abate nei pressi di Chieti per assistere spiritualmente i pastori della zona. Dopo la sua morte, per sua intercessione, Iddio aveva operato dei miracoli e perciò il suo corpo era stato “elevato” e trasportato in chiesa. Dal fatto che la memoria di Felice si era perduta a Montecassino e che il vescovo di Chieti, nel suo racconto, parlava di “maggiori” che avevano trasportato il suo corpo in chiesa, si deve dedurre che Felice fosse morto già da parecchio tempo. E’ da notare poi che mentre Desiderio lo chiama “beato”, Bucelino (Gabriel Bucelinus, Dusseldorf 29 dicembre 1599 - 9 giugno 1681, monaco benedettino, storico, autore di un Menologium benedictinum sanctorum, beatorum atque illustrium eiusdem ordinis virorum elogiis illustratum, nel 1655, n.d.r.) lo inserì nel suo Martirologio al 23 marzo con l’appellativo di “santo””. Un culto, quindi, quello per San Fele (“Sante Féle” in dialetto), ritenuto protettore contro l’itterizia, di particolare interesse perché specifico della città, dove convenivano e convengono ancora da varie parti d’Abruzzo per far ricorso all’intermediazione del Santo. Alcune sue reliquie (almeno 11 tra cui capelli, ossa, ecc.) sono conservate nella Cappella del Sacramento della Cattedrale di San Giustino.
Fra’ Gabriele Obletter, (nato a Chieti il 29 maggio 1884, da Giuseppe e Teresa Di Renzo, morto ad Assisi il 2 aprile 1964, traslato a Chieti nella Chiesa di Sacro Cuore il 17 ottobre 1964), nel suo volume “Santi Beati e morti in fama di santità delle Diocesi di Chieti e Vasto” (Teramo Stab.Tip.”La Fiorita”, 1924), inserisce il Beato Felice nel paragrafo II: “Santi e Beati che hanno semplicemente culto “ab immemorabili”” ed alle p. 197-198 scrive: “B. Felice. .... monaco dell’Ordine di S. Benedetto del quale certamente parlar deve Pietro Diacono nel lib. de sanctis montis Cassini c. 37 ove scrive: un monaco di questo nome morì in Chieti, e fu sepolto nell’istessa Chiesa del Vescovo di quel tempo sotto un certo altare, ma non dice in che anno, o giorno, e che fu di tale santità, che, poco prima che morisse, illuminò un cieco, che se gli era raccomandato”, citando da Girolamo Nicolino, Historia della Città di Chieti” (Napoli, 1657 p.112).
Obletter, quindi, riporta quanto scritto da Paolo Diacono al cap.XXXV della storia di Monte Cassino: “Felix, monachus a Cassinensi abbate ut pastoribus gregique praeesset transmissus est. Ubi cum defunctus et multa ad sepulcrum eius signa fierent, Theatinus episcopus eius exinde corpus elevans, in ecclesia venerabiliter collocavit, ac super illud altarium consecravit: quo loco cum quidam coecus venisset, lumen recepit”.
La nota di fra’ Gabriele Obletter così si conclude: “Il corpo di lui si venera nella Chiesa Metropolitana entro l’Armadio che è nella Cappella del SS.mo Sacramento, su cui si legge: “Reliquiae Sanctorum”.
E’ facile arguire che tutto sia partito dal riferimento fatto da Pietro Diacono (Roma 1107-1159), monaco benedettino, bibliotecario a Montecassino e che il Nicolino si sia limitato a tradurre il passo e ad aggiungervi qualche piccolo dettaglio . Fra’ Gabriele Obletter, monaco francescano di Chieti, morto in odore di santità e sepolto nella Chiesa del Sacro Cuore nel capoluogo, a sua volta, ha riportato entrambi i testi, aggiungendovi il particolare delle reliquie conservate nella Cattedrale di San Giustino.
Del frate benedettino, inviato a Chieti per assistere “pastori di greggi” probabilmente prima dell’anno 1000 o a cavallo tra il decimo e l’undicesimo secolo, si trovano tracce, riferite ad una Contrada S. Felice di Chieti, identificabile probabilmente con l’attuale S. Fele, in due pergamene conservate nell’Archivio della Curia Arcivescovile, oggetto di una tesi di laurea della ricercatrice Daniela Antonucci, che ha discusso una dissertazione sulla Chiesa di S. Maria de Civitellis di Chieti presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo nell’anno 1994-95.
Nella prima, indicata con il n. 190 nella nuova catalogazione (Regesto Balducci n. 163), di cm. 57 x 19, atto del notaio Tommaso di Chieti del 27 maggio 1338 a Lastignano (Pianella), si apprende che Masia, moglie di Angelo di Nicola, vende a fr. Nicola di S. Benedetto, priore del Monastero di S. Maria de Civitellis di Chieti, mezza vigna nel territorio della stessa città, contrada S.Felice (Sante Fele), al prezzo di 8 once e 9 tareni d’oro. Ecco il testo in latino: ...et concessit fratri Nicolao de Sancto Bene//dicto priori monasterii Sancte Marie de Civitellis de civitate theatina ementi nomine et pro parte dicti / monasterii Sancte Marie et conventus eiusdem loci, medietatem pro indiviso cuiusdam vinee site in pertinentis / civitatis theatine in contrata Sancti Felicis, cuius ab omnibus partibus tenet et possidet Laurentius Nicolai Rimandi...
Nella seconda, indicata con il n. 202 nella nuova catalogazione (Regesto Balducci n. 176), di cm. 38 x 18, atto del notaio Savino di Nicola di Chieti il 4 gennaio 1344, si riferisce che Lorenzo Nicola Rimandi (o Rinaudi?) di Chieti lascia alla figlia Cilla una vigna alberata in territorio di Chieti, contrada S.Felice (Sante Fele). Ecco il testo latino: ...et solemniter concesserunt dicte Cille Laurenzicti, presenti et / recipienti pro se et eius eredibus in perpetuum, dictam clausuram cum vinea arboratam dicti quondam Laurenti / in eodem testamento contentam, sitam in pertinentiis dicte civitatis in contrata Sancti Feli, cuius ad una parte pos/sident heredes quondam Martini de Tuderco, ab alia parte possidet monasterium Sancte Marie de Civitellis,/ ab alia parte possidet Peppus Romani et ab alia parte est via consortum...
Secondo schematiche ricerche, peraltro preziose per la indicazione delle fonti, condotte dallo studioso Nicolantonio Corrado nel dattiloscritto “Cappella rurale San Fele”, (Chieti, 1997), il luogo di culto dedicato a San Fele era situato in una cappellina privata, in un fondo rustico di Contrada San Fele di circa 9 ettari con casa colonica di più vani in due piani. La cappellina misurava m. 2,50 x 5 e conteneva un semplice piccolo altare. Nel 1959 con l’abbattimento della casa colonica, a spese dalla società per azioni “Luigi Di Berardino - Industria Laterizi”, con stabilimento a Chieti Scalo, fu costruita l’attuale chiesetta, a circa 100 metri più a monte della primitiva ubicazione. L’attuale luogo di culto, frequentato dalle famiglie della zona, è ancora meta di pellegrinaggi di quanti vogliono impetrare l’intercessione di S. Fele contro alcune malattie specifiche, come l’itterizia.
Gennaro Finamore (Gessopalena 1863 - Lanciano 1923), medico e studioso di tradizioni popolari tra i più apprezzati anche a livello nazionale, nella sua raccolta di usanze e consuetudini del 1894 riporta il rituale per combattere l’itterizia. Chi soffre d’itterizia mangia i tre pezzetti di pane, dicendo per ognuno:
Sande Féle mé
La salut’a mmé
Lu pan’a tté.
e mette di ciascun pezzo di pane una piccola parte sopra tre pietre diverse. Poi, vicino a quei frammenti di pane, mettendo il filo di seta gialla, dice:
Lu ggiall’a tté,
Lu rosc-i- a mmé.
poi mettendo il filo nero:
Lu ner’a tté,
Lu bbiang’a mmé.
E mettendo il filo verde:
Sande Féle mé
Ecchete pure ‘stu vèrde,
Ca la mmalatija mé se pérde.
Ciò fatto, si beve il vino e si getta il fiaschetto, nonché il piatto nel quale si portò il pane. Ecco perché in quel luogo è gran quantità di cocci. Vi accorrono anche del Teramano.
La sopravvivenza del rituale ai nostri giorni è contenuta nella ricerca condotta da Nicolantonio Corrado, che ha raccolto le testimonianze di Francesca Bascelli, anni 94 e di Eugenio Di Quilio, residente in Via del Frantoio n. 48, attuale custode della Chiesetta.
“Si va nella piccola Cappella e cercare grazie contro l’itterizia. Il malato, recandosi in contrada, deve chiedere, in elemosina a 9 famiglie 9 diverse “cose” da mangiare o da bere. Perciò così va dicendo: “Vaie cerchènne pe’ Sande Féle”, oppure: “Dàmme caccose pe’ Sande Féle”. E l’interpellato, affinché non ci siano doppioni: “Che tte sèrve?”. Adunate le 9 cose, si presenta nella Chiesetta, portando pure quattro fili: rosso, nero, giallo e bianco. Il malato assaggia un pezzetto di ciascuna cosa, la restante la lascia alla Chiesa, verrà mangiata dai “cani di S. Féle”. Poi prende il filo giallo e il filo nero e li appende alla statua del Santo, mentre il rosso e il bianco se li mette al collo come una collana da portare per una quindicina di giorni. Lo stesso riparte, una volta generalmente a piedi, non facendo, però, la stessa strada: “Deve essere nuova come la salute”. E da questo fatto è derivato il detto: “Che stì i’ a Sande Féle?”, di chi cammina allungando il percorso. A miracolo avvenuto il fedele torna in chiesa per ringraziare lasciando anche un’offerta”.
La chiesetta attuale della misura di m. 5 x 8, ha un piccolo porticato a due colonne nella parte anteriore, con la porta d’ingresso e due finestrelle laterali, con inferriata (una di esse, sulla destra risulta forzata e scardinata nella parte inferiore); coronamento a tetto con timpano triangolare. All’interno un piccolo altare sormontato da una tela di Madonna con Bambino e davanti due balaustre laterali con piccole statue di Santi, Gesù e della Madonna. Sui due lati dell’altare in due bacheche sono conservati ex-voto. Una trentina di sedie in legno e piccole icone della Via Crucis alle pareti completano il semplice arredo. La festa si celebra (ma si deve ora dire si celebrava) il 29 settembre, solitamente.
A cura di Mario D’Alessandro