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martedì 17 agosto 2021

BOZZA STATUTO CENTRI ANZIANI

A RICHIESTA COPIA STATUTO, FATTO SALVO IL REGOLAMENTO DEL COMUNE

INFO  anzianiinpiazza@libero.it


                                          
STATUTO
CENTRO SOCIO RICREATIVO CULTURALE ....
Premessa
Nel rispetto dei requisiti si propone di stimolare il cittadino a partecipare alla vita sociale usufruendo delle possibilità aggregative, ricreative e culturali offerte dal Comune di San fele  e il Centro Socio Ricreativo Culturale....
Art.1 - Costituzione
È costituita ai sensi di quanto previsto dagli art. 36 e segg. del C.C.  la libera associazione senza fini di lucro  denominata:
CENTRO SOCIO RICREATIVO CULTURALE ...
L'associazione opera ai sensi delle  vigenti disposizioni di legge sulla promozione sociale, con particolare riferimento a quanto disposto dalla Legge  383/2000;
persegue finalità di  utilità sociale nel pieno rispetto della libertà e della dignità degli associati; l’associazione è apartitica e si ispira  a principi di democrazia e di uguaglianza dei diritti e dei doveri di tutti gli associati.
Art. 2 - Finalità e attività
L’associazione si propone di:
a) Favorire l’attivazione e il mantenimento del benessere psicofisico dei cittadini ;
b) Promuovere relazioni sociali fra le persone;
c) Promuovere e organizzare la partecipazione dei cittadini alle proposte culturali, ricreative e sportive presenti sul territorio;
d) Promuovere iniziative socio culturali mirate gli interessi differenziati della popolazione anziana, nel rispetto anche degli interessi culturali meno condivisi dalla massa;
e) Stimolare e organizzare attività che consentano la produzione creativa;
f) Promuovere e incoraggiare le iniziative dei soci;
g) Stimolare e organizzare la partecipazione a forme di solidarietà rivolte ai cittadini con problemi.
Nell’ambito di quanto sopra è consentita la gestione diretta di attività di somministrazione di alimenti e bevande  con servizio riservato esclusivamente  ai soci.
Art. 3 - Diritti e doveri dei soci
Possono essere soci dell’associazione, di norma, tutti i cittadini ultracinquantacinquenni  che ne facciano richiesta al Comitato di gestione  purché condividano gli scopi e le finalità dell'associazione e che si impegnino a realizzarli e a versare la quota associativa.
Tutte le prestazioni dei soci sono  gratuite.
E' espressamente escluso ogni limite temporale ed operativo al rapporto associativo medesimo ed ai diritti che ne derivano.
I soci hanno diritto a partecipare alle attività e ad usufruire delle strutture del Centro Socio Ricreativo Culturale, di  essere informati e di controllare in proprio o attraverso gli organismi allo scopo preposti allo scopo.
Ogni socio ha diritto di  voto per l'approvazione e la modificazione dello statuto  e degli eventuali regolamenti, per eleggere o per essere eletto negli organi dell'associazione stessa.
I soci sono tenuti:
all'osservanza del presente statuto, dei regolamenti  e delle deliberazioni assunte dagli organi associativi e a versare la quota associativa annuale.
La qualifica di socio si perde per recesso, esclusione o  per mancato versamento della quota associativa annuale.
Tutti i soci  sono tenuti a rispettare il presente statuto e in caso di comportamento  difforme, o che arrechi pregiudizio o danno all'associazione, il Comitato di gestione  dovrà intervenire  e deliberare le sanzioni coerenti  quali il richiamo, la diffida  o l'esclusione dall'associazione.
I soci esclusi possono ricorrere per iscritto contro il provvedimento entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione e chiedere che l'assemblea dei soci si esprima in merito.
Art.4  - Gli Organismi
Sono organi dell’associazione:
L’Assemblea dei Soci;
Il Comitato di Gestione;
Il Presidente e il Vicepresidente;
Il Collegio dei Revisori, se nominato;
Il Collegio dei Probiviri, se nominato.
Art. 5 - l'Assemblea
Hanno diritto di partecipare all’assemblea tutti i soci dell’associazione che siano in regola con il versamento della quota associativa che deve essere rinnovata per l'anno in corso almeno 15 giorni prima della data di convocazione dell'assemblea.
L’assemblea dei soci può essere convocata tanto in sede ordinaria  che straordinaria, per decisione del Comitato di gestione o su richiesta indirizzata al presidente da almeno un terzo dei soci.
Viene convocata in via ordinaria:
  • Almeno una volta all’anno entro il 30 aprile per l’approvazione del  rendiconto economico finanziario  consuntivo dell’anno precedente e per deliberare la destinazione dell'eventuale avanzo;
  • Per la presentazione del bilancio preventivo dell’anno in corso;
  • Per l’approvazione del programma annuale delle attività;
  • Per il rinnovo delle cariche sociali alla loro scadenza;
  • Per deliberare sui regolamenti interni;
  • Per deliberare sull’espulsione di un socio, a sua richiesta.
L’assemblea straordinaria delibera sullo scioglimento dell’associazione, sulle proposte di modifica dello statuto e su ogni altro argomento di carattere straordinario sottoposto alla sua approvazione dal Comitato di gestione.
Le assemblee sia ordinarie che straordinarie sono convocate con preavviso di almeno quindici giorni mediante avviso ai soci esposto nella bacheca del Centro a cura del presidente ed eventualmente con lettera inviata ai soci tramite e-mail; in caso di urgenza, il termine di preavviso può essere ridotto a cinque giorni.
La convocazione deve indicare la data, il  luogo e l'orario di prima e seconda convocazione, nonché  l'ordine del giorno. La seconda convocazione può avvenire anche un'ora dopo la prima. L’assemblea, sia in sede ordinaria che in sede straordinaria, in prima convocazione è regolarmente costituita con la presenza di almeno la metà dei soci.
In seconda convocazione essa è validamente costituita qualunque sia il numero degli intervenuti.
È ammesso l’intervento per delega da conferirsi per iscritto esclusivamente ad altro socio ed  è vietato il cumulo di deleghe in numero superiore a due.
L’assemblea delibera sempre a maggioranza dei presenti e vota normalmente per alzata di mano.
Su proposta del Presidente o di un terzo dei presenti, per argomenti di particolare importanza, la votazione può essere effettuata a scrutinio segreto. Il Presidente dell’assemblea sceglierà tre scrutinatori fra i presenti.
L’assemblea è presieduta dal Presidente dell’associazione ed in sua assenza dal Vice Presidente. In mancanza di entrambe, da persona designata dall’assemblea.
I verbali delle riunioni dell’assemblea sono redatti dal Segretario proposto  ai presenti dal Presidente dell’assemblea  e restano a disposizione dei soci presso la sede della associazione.
Art. 6 - Il Comitato di Gestione
Il Comitato di gestione è composto da cinque membri scelti tra i soci e nomina al suo interno :
  • il Presidente e il Vice presidente.
  • Il Comitato di gestione:
  • Delibera sulle questioni riguardanti l’attività dell’associazione per l’attuazione delle sue  finalità;
  • Predispone i rendiconti  consuntivi e preventivi;
  • Delibera su ogni atto di carattere patrimoniale e finanziario che ecceda l’ordinaria amministrazione;
  • Delibera circa l’accettazione delle domande di ammissione dei nuovi soci.
Il Comitato di gestione, nell’esercizio delle sue funzioni, può avvalersi della collaborazione di persone singole o commissioni consultive formate sia da soci che da non soci.
Il Comitato di gestione dura in carica tre anni.
I membri del comitato di gestione non riceveranno alcuna remunerazione in dipendenza della loro carica, salvo il rimborso delle spese effettivamente sostenute.
Il Comitato di gestione si riunisce sempre in unica convocazione qualora il Presidente lo ritenga necessario o quando lo richieda almeno un terzo dei suoi membri.
Le riunioni del Comitato di gestione sono valide con la presenza di almeno la maggioranza dei suoi componenti.
Il Comitato di gestione delibera a maggioranza semplice per alzata di mano in base al numero dei presenti.
Le riunioni del Comitato di gestione sono presiedute dal Presidente e in sua assenza del Vice Presidente. Le sedute e le deliberazioni  sono fatte constare da verbale sottoscritto dal Presidente e dal Segretario.
Art. 7 - Il Presidente e il Vicepresidente
Al Presidente è conferita la rappresentanza dell'associazione di fronte ai terzi ed in giudizio ai sensi di quanto previsto dall'art.36  2° comma del C.C.
Il Presidente, in caso di assenza o impedimento, è sostituito ad ogni effetto dal Vice Presidente. Il Presidente, di norma, non può essere eletto per più di due mandati.
Art. 8 - Il Collegio dei Revisori
Qualora lo ritenga opportuno, l’assemblea nominerà un collegio di revisori composto di tre membri scelti anche tra non soci che durerà in carica tre anni e i cui membri saranno rieleggibili. Il Collegio ha il compito di controllare la gestione contabile e amministrativa dell’associazione.
Art. 9 - Il Collegio dei Probiviri
Qualora lo ritenga opportuno, l’assemblea nominerà un collegio dei probiviri composto di tre membri scelti anche tra non soci che durerà in carica tre anni e i cui membri saranno rieleggibili. Il Collegio ha il compito di dirimere le controversie che sorgono tra i soci e fra i soci ed il Comitato, sulla base delle disposizioni contenute nel regolamento interno dell’Associazione.

Art. 10 - Il Patrimonio
Il patrimonio dell'associazione è costituito dal complesso di tutti i beni mobili e immobili appartenenti all'associazione medesima
In caso di scioglimento per qualunque causa, il patrimonio, dedotte le passività, sarà devoluto ad altro Centro Socio Ricreativo Culturale del Comune di Milano con le medesime finalità, salvo diversa destinazione imposta per legge.
Il fondo comune,  costituito dagli avanzi della gestione, dai fondi, dalle riserve e da tutti i beni acquisiti a qualsiasi titolo dall'associazione non è mai ripartibile fra i soci, né durante la vita  dell'associazione né all'atto del suo scioglimento. Il socio che per qualsiasi motivo (morte, dimissioni, esclusione per indegnità o morosità deliberata dall’assemblea) cessi di far parte dell’associazione non ha alcun diritto sul patrimonio sociale.
Art. 11 - Le risorse
Le entrate dell’associazione sono costituite:
  • Dalle quote associative annuali da versare all’atto di ammissione all’associazione;
  • Dai contributi ordinari stabiliti annualmente dal Comitato di gestione;
  • Da eventuali contributi straordinari  degli associati deliberati dal Comitato di gestione in relazione a particolari iniziative o esigenze che richiedano disponibilità eccedenti quelle del bilancio ordinario;
  • Da erogazioni liberali dagli associati e da terzi;
  • Da contributi di pubbliche amministrazioni, enti locali, istituti di credito ed enti in genere;
  • Da sovvenzioni, donazioni o lasciti di terzi o associati.
Art. 12 - Il rendiconto annuale
L’esercizio sociale inizia il giorno 1 gennaio e termina il giorno 31 dicembre di ogni anno. Entro il 30 aprile dell'anno successivo dovrà essere presentato all'assemblea dei soci il rendiconto economico finanziario  nel quale devono essere evidenziati separatamente tutti i proventi e tutti gli oneri  relativi alle attività, nonché quelli relativi alle eventuali raccolte pubbliche di fondi o  dei contributi derivanti dalle attività convenzionate.
Tale rendiconto sarà depositato nella sede sociale a disposizione del Collegio dei Revisori per le opportune verifiche di loro competenza ed esposto nella bacheca del Centro contestualmente all’avviso di convocazione dell'assemblea annuale.
E' fatto divieto di distribuire anche in modo indiretto utili o avanzi di gestione nonché fondi riserve o capitale . L'associazione ha inoltre l'obbligo di reinvestire l'eventuale avanzo di gestione esclusivamente a favore di attività istituzionali tra quelle previste statutariamente.
Art. 13 – Lo scioglimento
Lo scioglimento dell’associazione è deliberato dall’assemblea generale dei soci convocata in seduta straordinaria con l’approvazione, sia in prima che in seconda convocazione, di almeno 4/5 (quattro quinti) dei soci, con esclusione delle deleghe.
Nella medesima seduta di deliberazione sullo scioglimento dell’associazione l’assemblea stessa nomina uno o più liquidatori.
Art. 14 – Norme transitorie e finali

Per quanto non previsto valgono le norme vigenti  in materia.

mercoledì 4 agosto 2021

UNA CHIESA GIOVANE E ANTICHISSIMA




Farebbe tanto bene “ai cristiani d’Europa prendere coscienza che una parte notevole delle loro radici cristiane latine si trova nel sud del Mediterraneo”, avvertiva quasi profeticamente al principio del terzo millennio l’allora vescovo di Algeri, Henri Teissier. Anche perché, scriveva lo storico francese Claude Lepelley, scomparso un mese fa, “il cristianesimo occidentale non è nato in Europa, ma nel sud del Mediterraneo”.

Pare strano a chi pensa che tutto abbia avuto origine con san Benedetto e la sua regola; e che prima di Montecassino e Cluny ci fossero solo i cristiani dati in pasto ai leoni nelle arene dai romani pagani, dopo essere stati sorpresi a pregare il Dio fattosi uomo.

Eppure, questa è storia. Dopotutto, le più antiche opere di teologia cristiana composte in latino provengono da Cartagine, non dall’Italia.

All’epoca di Tertulliano, infatti, i cristiani della costa settentrionale dell’Africa scrivevano in greco e non in latino. Sarebbe stato proprio lui ad abbandonare la "koiné" di Aristotele per passare alla lingua di Virgilio, sì da raggiungere un pubblico più vasto come si fa oggi con i libretti tascabili a prezzi scontati immessi a getto continuo sul mercato. Un’opera monumentale e complessa, tanto che Tertulliano stesso già sulla Genesi si bloccò, incerto com’era sulla traduzione di "logos": non era convinto che "sermo" fosse termine abbastanza esaustivo. E dall’Africa attraversavano il mare anche le più antiche versioni latine della Bibbia, ben prima che Girolamo la traducesse nella forma tramandata nei secoli e giunta pressoché uguale fin quasi al Vaticano II.

Il benedettino Pierre-Maurice Bogaert, cattedra a Lovanio in studi biblici, ne era convinto: “Quando si cominciò a sentirne la necessità, sicuramente dalla metà del II secolo nell’Africa romana, la Bibbia venne tradotta dal greco al latino. Fino a prova contraria, sono per l’origine africana delle traduzioni piuttosto che romana o italiana”.

E poi sant’Agostino, il vescovo di Ippona grazie al quale, diceva ancora il vescovo Teissier, “L’occidente latino ha conquistato la sua indipendenza teologica e con ciò anche la sua propria personalità cristiana”. Taluni, aggiungeva, “potrebbero disapprovare questa evoluzione, e preferire la lettura del cristianesimo proposta dai Padri greci. Ma tutti devono riconoscere che l’occidente latino deve soprattutto ad Agostino la sua propria lettura del messaggio biblico”.

E anche il monachesimo, in fin dei conti, trova in Africa la sua prima sedimentazione. Sarebbe stato sempre Agostino a organizzare i primi luoghi di vita monastica, a Tagaste, dopo aver scoperto nella biografia di sant’Antonio abate messa a punto da Atanasio lo stile di vita di diversi anacoreti convertiti alla vita ascetica.

Meta ideale è il deserto egiziano, “la regione popolata da coloro che per primi avevano messo in atto la rinuncia definitiva alla vita mondana”, ha scritto l’archeologa Francesca Severini: “Qui più che altrove il pellegrino poteva entrare in contatto con quella fede autentica che aveva chiamato Paolo di Tebe, Antonio il Grande, Pacomio e molti altri a ritirarsi in solitudine nel deserto, veri e propri modelli di vita ascetica volta al superamento della dimensione terrena attraverso lo studio delle Sacre Scritture, la preghiera, il digiuno e la penitenza”.

Di quegli insediamenti ne sopravvivono ancora molti, compreso il monastero di Santa Caterina, costruito nel VI secolo da Giustiniano nel Sinai meridionale, che pure un generale in pensione egiziano vorrebbe far radere al suolo perché “minaccia la sicurezza nazionale” a causa della presenza di “venticinque monaci ortodossi” tra le sue mura.

Quel modo di vivere, inizialmente unica speranza di salvarsi dalle persecuzioni anti cristiane, diventa poi un modello. “Nel corso del IV secolo, personalità di spicco dell’oriente cristiano si recano in occidente diffondendo con le parole e gli scritti i modelli del monachesimo egiziano e incoraggiandone l’imitazione”, aggiunge Severini. “Non c’è da stupirsi dunque se i modelli improntati sul rigoroso ascetismo orientale vengano accolti e assimilati a tal punto da modificare e forgiare le aspirazioni monastiche in occidente”.

Un cristianesimo vivace e fecondo, quello delle origini. Al tempo del Concilio di Cartagine, verso l’anno 200, si contano settanta vescovi nell’Africa romana. In Italia, tre. Nel secondo concilio di Cartagine, i vescovi africani sono novanta, mentre a Roma, al sinodo convocato da papa Cornelio, ne erano presenti solo sessanta. Prima, già nel 189, la rilevanza del cristianesimo africano era acclarata dall’elezione a pontefice di Vittore, probabilmente un berbero.

Quali fattezze assuma poi il serpente che avrebbe distrutto questa specie di Eden, di cristianesimo vivace e fecondo, è facilmente spiegabile, dicono gli storici più affermati: le dispute dogmatiche, battaglie dai connotati ben poco cristiani su cui la travolgente novità musulmana, poi, avrebbe avuto gioco facile a imporsi. Alla fine del VII secolo, gli Omayyadi compiranno la grande conquista di tutto il nord Africa: l’islam trionfante sul cristianesimo delle Chiese nordafricane divise da sospetti, lotte intestine e reciproche accuse d’eresia. Il seguito è poi una storia di continua lotta per la sopravvivenza, di paria, di dhimmi tollerati nella grande umma rivelata dal profeta Maometto.

Una situazione pressoché cristallizzata: “Le nostre Chiese sono modeste e fragili; la partenza di alcune comunità religiose presenti da molto tempo nel Maghreb e la mobilità sempre più rapida dei membri delle parrocchie ci obbligano a contare sempre di più sulla solidarietà delle altre Chiese, soprattutto in termini di preti 'fidei donum' o di congregazioni in particolare africane”, scrivevano nel 2012 i vescovi della conferenza episcopale della regione del nord Africa. Il fatto è, chiosava Teissier, che "noi non facciamo numero. Facciamo segno. Segno dell’amore universale di Dio per tutti gli uomini”.

E come segno e presenza vitale bisogna rimanere lì. Lo sa bene il vescovo di Tripoli, Giovanni Martinelli, giunto lì all’indomani della rivoluzione che portò al potere Muammar Gheddafi e che di scappare dall’inferno della capitale libica non ne vuole proprio  sapere, anche se ormai è l’unico italiano rimasto: “Resto, devo restare. Bisogna farsi coraggio. In questo momento non ho paura, ma so che arriverà quel momento”.

Forse, il vescovo rimasto nella capitale libica con trecento lavoratori filippini ricorda cosa accadde nel 1908 al sacerdote francescano Giustino Pacini, superiore della missione di Derna. Ucciso a pugnalate, da tempo era in conflitto con la comunità musulmana locale perché rivendicava il diritto di difendere la propria attività missionaria. Se necessario, andando fino davanti al sultano di Istanbul.

Il cardinale nigeriano Anthony Okogie, settantottenne arcivescovo emerito di Lagos, aveva pronunciato parole simili a quelle del vescovo Martinelli poco dopo le prime stragi di Boko Haram: “Non scapperemo. Difenderemo le nostre chiese e le nostre case. Se servirà sacrificare la vita, lo faremo”.

Un refrain, triste, che da un capo all’altro del continente viene scandito da decenni. L’Algeria, con la sua lunga guerra civile ne rappresenta l’esempio più lampante: in quel conflitto ha perso il dieci per cento dei religiosi che erano rimasti lì. Nel 1996 l’arcivescovo di Orano, Pierre-Lucien Claverie, morì a causa di una bomba fatta esplodere nell'arcivescovado, pochi mesi dopo l’eccidio dei sette monaci trappisti di Tibhirine: sequestrati, finirono sotto la mannaia del boia.

“Bisogna viverlo come qualcosa di molto bello, di molto grande. Bisogna esserne degni. E la messa che celebreremo per loro non sarà in nero. Sarà in rosso”, disse frère Jean-Pierre, uno dei due superstiti di quella strage, quando un confratello in lacrime venne a riferirgli che i suoi compagni erano tutti morti. “Li abbiamo visti subito come martiri. Il martirio era il compimento di tutto quello che avevamo preparato da molto tempo nelle nostre vite. Eravamo pronti, tutti”, disse qualche anno fa in un’intervista data a Jean-Marie Guénois per "Le Figaro".

È la croce del continente, che si trascina fin dai primi secoli dopo la venuta di Cristo. Non a caso, ricordano i vescovi del luogo, i più antichi testi sui martiri cristiani, gli "Acta Martyrum Scillitanorum", sono africani. Si tratta della trascrizione in latino degli atti del processo e della condanna dei membri appartenenti a una comunità cristiana di una città di cui non si sa più nulla avvenuto nell’anno 180. Si tratta dei più antichi documenti di questo genere nella storia della letteratura cristiana.

Fu proprio il vescovo Claverie, quasi presentendo il compimento tragico della sua esistenza terrena, a spiegare il senso della fiammella cristiana in terre ostili: “La Chiesa adempie alla sua vocazione e alla sua missione quando è presente nelle divisioni che crocifiggono l’umanità nella sua carne e nella sua unità. Gesù è morto diviso tra il cielo e la terra, con le braccia distese per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e li mette gli uni contro gli altri e contro Dio stesso”.

Chiesa di minoranza e perseguitata, ma viva. Neppure un anno fa l’Annuario pontificio certificava la crescita esponenziale della presenza cattolica nel continente della speranza. Duecento milioni di fedeli, ritmo inversamente proporzionale al lento e inarrestabile declino dell’Europa cristiana, ma superiore anche all’eterna sfida asiatica, missione di papa Francesco e antico nervo scoperto della Santa Sede.

Una Chiesa giovane, quella africana, come ha detto il 2 marzo l’arcivescovo di Rabat e presidente delle conferenze episcopali nordafricane, in visita "ad limina" a Roma: “Sì, siamo per lo più stranieri, spesso di passaggio, ma le nostre chiese sono molto giovani. In Marocco la popolazione conta trentamila persone, ma l’età media dei fedeli è di trentacinque anni”.

Già a metà del decennio scorso, la vivacità della chiesa africana aveva investito come un ciclone il Vaticano. Dieci anni fa, si faceva notare come in ventisei anni lì i fedeli fossero triplicati, i sacerdoti aumentati dell’85 per cento, i seminaristi quadruplicati, i vescovi aumentati del 45 per cento. Tanto che si parlò di esportare il clero verso l’Europa sempre più secolarizzata e con le vocazioni al lumicino, quasi un’opera di rievangelizzazione del continente.

Un grande cardinale come il già decano emerito del collegio cardinalizio, Bernardin Gantin, primo africano chiamato a ricoprire incarichi di vertice in curia (sarà Paolo VI ad affidargli la segreteria dell’evangelizzazione dei popoli, prima di promuoverlo alla presidenza di Giustizia e pace e di "Cor Unum". Giovanni Paolo II lo nominò successivamente prefetto della congregazione per i vescovi), parlò non a caso di “sacerdoti e religiosi f'idei donum' al contrario. È la bontà della Chiesa in Africa, la missione è un dovere universale”, disse in un’intervista al mensile "30 Giorni" due anni prima della morte, avvenuta nel 2008. Lui che – come rivelò qualche tempo fa il cardinale nigeriano Francis Arinze – quando nel 2002 decise di lasciare l’Urbe alla volta del suo Benin disse che ci tornava “da missionario romano”.

Gantin, profeta che aveva vissuto in prima persona i drammi del colonialismo e della delicata decolonizzazione, suggeriva che i giovani e determinati preti usciti dai seminari africani non s’allontanassero troppo dalla madrepatria: “Poi, se il loro vescovo acconsentirà, potrebbero di nuovo tornare in occidente. Quello che bisogna evitare è che i sacerdoti africani, senza il consenso dei propri vescovi, vaghino per le diocesi del mondo occidentale più alla ricerca di un proprio benessere materiale che per un autentico zelo pastorale”. Inoltre, ammoniva le congregazioni religiose “europee agonizzanti o minacciate di estinzione” a “non andare a rinvigorirsi a buon prezzo tra le giovani chiese in Asia o Africa”.

Certo, c’è il problema delle liturgie, spesso travolte dallo spirito festoso e allegro di tante realtà sub-sahariane. Ma i primi a porre gli argini sono proprio loro, i vescovi africani, che a differenza di tanti sacerdoti delle parrocchie dell'occidente – soliti gestire le liturgie come farebbe un animatore turistico in un villaggio estivo – al culto del mistero ci tengono. Diceva Gantin: “Non bisogna mai staccarsi dal magistero della chiesa universale. E le nostre messe non devono essere troppo particolare. Non devono essere comprese solo da noi africani. Un qualsiasi cattolico che partecipa a una nostra funzione religiosa deve poterla riconoscere, deve potersi trovare a casa sua. Il cattolicesimo non è protestantesimo”.

Accanto alla Chiesa giovane e dinamica, in Africa c’è anche quella antichissima che affonda le radici nell’immediato dopo Cristo. Ci sono i milioni di copti egiziani che da secoli vivono da minoranza più o meno tollerata nel paese arabo più popolato al mondo, custodi della chiesa fondata da San Marco evangelista che ad Alessandria pose le basi della sua predicazione, prima di essere martirizzato con una corda stretta attorno al collo.

Centinaia di chilometri più a sud, nell’Etiopia scampata all’invasione islamica, s’annidano ancora vecchi monasteri dislocati qua e là tra gli altipiani. “La mia Chiesa è la più antica del mondo e la sua fondazione risale direttamente al tempo di Gesù, attorno all’anno 35, subito dopo la sua morte e resurrezione”, raccontava a "Jesus" abuna Paulos, patriarca della chiesa ortodossa etiope, scomparso tre anni fa. Chiesa antica ma viva: “Abbiamo cinquantamila e più chiese in tutto il paese. I nostri giovani vengono regolarmente a messa, con presenze pari al settanta per cento. In tutto, considerata la costanza con cui le fasce adulte e anziane vengono al culto, sfioriamo l’ottante per cento di popolo a messa ogni domenica”.

Come per l’Egitto, anche in Etiopia è fondamentale la presenza dei monasteri, eremi che hanno resistito alle traversie della storia: “Sempre più giovani chiedono di diventare monaci. Abbiamo milleduecento monasteri in tutto il paese e circa cinquecentomila religiosi. Abbiamo quarantacinque milioni di fedeli, se si calcolano i tantissimi cristiani etiopici che vivono all’estero”.

Il mese scorso, Papa Francesco ha voluto riconoscere il valore della Chiesa cattolica locale che, seppur piccola e minoritaria, rappresenta uno di quei “segni” di cui aveva parlato il vescovo Teissier. L’arcieparca di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel, è stato creato cardinale. Il secondo nella storia dell’Etiopia, dopo Paulos Tzadua. Ed è stato proprio il nuovo porporato a spiegare a Radio Vaticana la fede profonda del suo paese: “La gente prende la sua fede sul serio: la fede è un dono di Dio. E vivono così. Affrontano le cose vedendo che se Dio vuole, le cose possono cambiare. Non perdono la speranza. Per questo amano la vita, dal concepimento fino alla morte. E questo è importante”.

L’Africa continente della speranza, serbatoio di fede per l’avvenire che progressivamente vedrà l’Europa inaridita e le sue chiese sempre più vuote. “Mentre si tende a descrivere l’Africa in modo riduttivo e spesso umiliante, come il continente dei conflitti e dei problemi infiniti e insolubili”, al contrario “essa è per la chiesa il continente della speranza, il continente del futuro”, disse Benedetto XVI nel discorso ai membri della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel, ricevuti in udienza nel febbraio del 2012.

Non a caso, i vescovi africani si sentono il baluardo contro tutto ciò che possa svilire o appannare il messaggio cristiano così come tramandato nei secoli. Lo si è visto bene al recente sinodo straordinario sulla famiglia, dove loro hanno fatto da capofila allo schieramento avverso allo "Zeitgeist", lo spirito del tempo che tanto di moda va migliaia di chilometri più a nord, dove le Chiese hanno le casse piene e le navate vuote.

“L’Africa propone all’occidente i suoi valori sulla famiglia, l’accoglienza, il rispetto della vita. Gli ultimi papi hanno avuto grande fiducia nella chiesa d’Africa e questo è un invito a fare la nostra parte”, ha di recente scritto il cardinale guineano Robert Sarah, prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, nel libro “Dieu ou Rien” edito in Francia da Fayard. “Affermo solennemente – prosegue il porporato – che la chiesa d’Africa si opporrà fermamente a ogni ribellione contro l’insegnamento di Gesù e del magistero”.

Una Chiesa piagata dalle persecuzioni ma tutt’altro che in ginocchio, come ha ricordato solo qualche settimana fa nel duomo di Milano il cardinale John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, in Nigeria. Lui, che ogni giorno conta i morti per mano di Boko Haram, ha dato un messaggio di fiducia a quell’occidente che passa le giornate a rimuovere presepi e a far tacere campane perché disturbano le coscienze e violano la sacra laicità razionale: “Sono stato nella basilica di Sant’Ambrogio, sulla tomba del grande vescovo che ha battezzato l’africano Agostino: segno di una eredità che risale sino ai primi che seguirono Gesù. Non è possibile che una Chiesa con questo fondamento non viva”


Il quotidiano da cui è stato ripreso l'articolo di Matteo Matzuzzi:

> Il Foglio

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