Eravamo cresciuti sempre più sdegnosi del “florilegio” tutelato da
canoni decadenti, esistenziali e borghesi, l’ossessiva cadenza dei fiori nei
versi.
Il florilegio aveva dominato tutto l’arco della poetica
lucana che andava dagli anni patriottici e lucanardi di Nicola Paldi (1884),
dai sonetti neoclassici dell’avvocato Vito Maria Magaldi (1885), ai versi
religioso-monarchici di Giuseppe Regaldi (1894), ai carducciani toni di
Domenico Valinoti, ai lirismi nazionalistici di Labella, a quelli italo-eroici
del vescovo Razzoli, a quelli di Sergio De Pilato, a “I petali del Loto” e
“L’anima del Liuto” di Federico Gavioli, ai versi di Emilio Gallicchio e di tutti
coloro che farcivano le poetiche nostrane di fiori e visioni oniriche …
“In putrefazione ginestre sui calanchi”, qui Lotierzo aveva
dissacrato il lirismo floreale; e Raffaele Nigro nel testo di “Giocodoca”,
“Zero del principio – da scandire tutto – vieni lucano sali sulla mia coglia]”, e Giulio
Stolfi in “Giallo d’argilla e Ginestre”, e la “malvarosa è un fiore” della
poesia “Lucania” di Mario Trufelli, “Margherite e Rosolacci” di Rocco
Scotellaro[, a «il vento
menava l’uva spina per l’assolata campagna» di Bernardo Panella, le poetiche si
adeguavano al dramma epicosociale, al realismo contadino e ambientale.
Insomma del Romanticismo erano sparite le pose ed i languori,
si erano disperse al vento degli anni e delle guerre le sue scorie. Era
definitivamente morta la lunare e lunatica letteratura, quella delle
camelie, delle gardenie e delle tuberose.
Si stava man mano manifestando, più che altrove,
l’impressione dell’immenso teatro sconvolto, il dualismo rovesciato di attori e
spettatori, le moltitudini che da spettatrici osavano assolutamente assurgere a
protagoniste e, forse, si stava verificando la terribile metamorfosi che ha poi
provocato la catastrofe linguistica, il sisma degli intrecci, il naufragio dei
ruoli e delle parti, il cataclisma di Babele e dei suoi miti postumi e
conseguenti, sconclusionati e confusi.
Che cosa era il pubblico e chi era il poeta? Il pubblico era
il mansueto spettatore; poi, con l’inversione delle parti, lo scambio delle
identità, con il contadino diventato piccolo borghese e il piccolo borghese già
borghese, il sottoproletario già piccolo borghese, l’artigiano ed il vecchio
bracciante diventati uscieri ed impiegati, infermieri e netturbini, tutti si
sono fatti coinvolgere, inghiottiti in un mostruoso gioco delle parti, in un
baratto estemporaneo dei ruoli che non è democratico, ma è “l’inconsistenza
della competenza”.
È accaduto quindi che il poeta non ha potuto più dal tavolo o
dalla finestra della sua dimora ammirare o cantare il paesaggio, la natura, le
stagioni o l’infinito, gli uomini e l’ambiente.
Il poeta doveva essere un uomo, doveva partecipare alle
fatiche di Sisifo, doveva lottare nell’intrigo dell’esistenza, vivere il
dolore, le umiliazioni, caricarsi degli oneri della vita, esporsi al rude
attrito della materia, essere militante, operatore, gregario, dare spettacolo
di sé, assumere le responsabilità ed il carisma di un leader … doveva preferire
il silenzio della modestia alla fanteria dei grafomani che oggi imbrattano
carte e riempiono i cassetti alla disperata, tracotante ricerca di essere nella
folla, nel pubblico, nella critica, nelle antologie, noti ed osannati come
poeti, mentre hanno il talento fuori del loro stesso essere, lo hanno altrove o
ne sono del tutto privi.
C’è una nota predominante in definitiva nell’eredità delle
poetiche che hanno interessato la Basilicata, ed essa consiste in quell’elemento
fondamentale della poetica decadente, la nostalgia dell’infanzia ed il
simbolismo.
Osservare da dietro i vetri appannati la campagna, le
capanne, la dura fatica ed il disperato grigiore della vita contadina,
significava immedesimarsi, con il tepore degli interni borghesi, nel dramma di
povertà e di frugale sobrietà dei contadini che tuttavia facevano pur parte di
un presepe nello scenario, come se si volesse stimolare il gioco, il poeta
penetrava curioso ad osservare ed a descrivere. Si è vero! Attorno a Gavioli e
legati a Verlaine, a Rimbaud, a Baudelaire, a Mallarmè, essenzialmente a Garcia
Lorca.
Ma furono Sinisgalli e Rocco Scotellaro che fecero testo per
una poetica che mutava le sue leggi, la sua metrica, i suoi paesaggi, la sua
sintassi, le metafore, la sua forma ed i suoi significati, le allegorie …
Un nugolo di poeti quindi da salvare, rispetto a quelli che
hanno finto la funzione neorealistica, ma che invece sono stati decadenti.
Nella Lilliput dei poeti contadini, ci sono ormai Gulliver di porcellana che
non appartengono in nessun caso a quella realtà.
Né il titolo di poeta è come il diploma di scuola media,
necessario per ottenere un posto di lavoro, ma rispetto alla gran massa di
poeti che impavidamente o ipocritamente, alla guisa di nuovi Cesari vivono la
condizione allucinogena della propria vanità, giustificando o addirittura
esaltando ogni cosa sbagliata pur di guadagnare consenso, rispetto a questa
invadente, a volte mansueta, a volte intrigante e dispotica razza, è anche
opportuno, se non necessario, approntarne il totale sterminio.
Dopo aver cercato e meditato, Albert Camus trovò come la
funzione della poesia e dell’arte fosse quella di «fissare in formule eterne
ciò che fluttua nel vago e nelle apparenze».
Era la concezione medesima dell’arte nella sua esistenza
classica e tradizionale.
Ma conosciamo le traversìe cui è sottoposto il discorso della
poesia? È poesia, non è poesia? Per questo motivo ci colleghiamo ai tempi
passati, e ci affidiamo per questo ai tempi che verranno. Consapevoli del
sentimento che pervade le tele colorate e le pagine scritte su di una parte del
mondo ove le vite si sciupano futilmente nell’attesa delle metamorfosi
impreviste e degli infimi destini cui ci assoggetta la provincia della Storia.
* * *
La seriosità della poesia forse finì con la fine di quella
sensibilità veteroromantica dell’odore dei limoni, delle descrizioni floreali
ed idilliche, quando la cultura egemone e la ufficialità letteraria calava
dall’alto su tutta la nostra inventiva, le complicate sibille dell’ermetismo,
le etichette del neorealismo, le ragioni del decadentismo, quelle del realismo
socialista, dello zdanovismo, quando con Vito Riviello e con gli altri,
riuscivamo ad ottenere un impatto straordinario con l’esistenzialismo, con il
gramscismo e con la psicoanalisi di Freud.
Pur tuttavia l’isolamento e la condizione del sud attutirono
questa tensione e destinammo la nostra attenzione in direzione dei problemi
della nostra realtà pur proiettandoci purtroppo in una visione del localismo di
provincia, piagnona, perdendo di vista il metodo per approfondire il contesto.
Il falso problema di collegarci al resto del Paese, di
promuovere la cultura subalterna a cultura egemone restava un tentativo
illusorio, rispetto a come vi erano riusciti Carlo Levi, Rocco Scotellaro,
Leonardo Sinisgalli e Michele Parrella.
FONTE TALENTI LUCANI-PASSAGGIO A SUD