Vi è tutta una storia delle pance singole o a convegno, in
diverse guise e nelle diverse epoche. Le pance hanno tenuto comportamenti consoni
alla loro importanza, al grado di appartenenza, e di rispetto alla capacità
d’introito e di digestione. Si sono aperte alle speranze di tavole
principesche, si sono pronunciate nel prediligere i cibi e le bevande, si sono
gonfiate come otri per l’ingordigia, sono rientrate per privazioni e penuria,
si sono “fatte capanna” nelle poche occasioni mangerecce, ospiti del ricco e
del massaro, al momento in cui occorreva fare onore alle mense e a chi con
prodiga cortesia le aveva invitate e stimolate con offerte abbondanti e
prelibate di brodi, carni, paste asciutte, prosciutti, carni cotte al sugo e
arrosto …
Gastrolatria si definì questa religione: adorazione della
pancia, così come si esprime Honoré de Balzac[1].
Caldaie di bollito e di maccheroni si fanno versare nei
caccavi grandi e dei quali con notevoli cucchiai si versano nelle scodelle;
tavole ingombre di vasellame e foglie verdi di sedani e finocchi in pignate,
scafaree e brocche d’acqua, vini in caraffe.
Vi sono state pance, espressioni di potenza, di ricchezza,
pance rivestite di panciotti, decorati di catene d’oro e d’orologi con rubini,
pance di “don”, pance di baroni, di fattori ed amministratori, pance d’agrari,
di senatori e d’uomini di potere e di governo, pance nutrite dalle cariche e
dagli onori, pance autorevoli ed autoritarie ed alle quali ogni carica portava
lustro e un grado in più di protuberanza, pance nude per la povertà senza
pudore e senza ritegno, tra camicie sbrindellate e calzoni a strappi o a
rattoppi con le tasche penzoloni di “stozze” di pane duro, le pance
sottoproletarie e le pance vagabonde.
Esse ingurgitavano, quando potevano, tonnellate d’alimenti,
di minestre, di formaggi a fette, pentoloni di brodo. Ettolitri di vino sono
stati ingeriti, tracannati attraverso gole ed esofàgi. Il tutto defecato nelle
crepe di discariche abusive, dietro le siepi e fuori la porta del paese.
Ed è proprio la storia delle pance che ci porta
inevitabilmente a considerare quel mosaico del sapore che ci deriva dalle più
svariate e strane origini contadine, da quella varietà incontrollabile di
gruppi sociali, d’etnie, di caratteri ed abitudini di “genealogie dialettali” e
di culture, di campanili, di montagna e di pianura all’interno delle quali, la
tradizione privata e familiare può aver “innestato imprevedibili varianti”.
Misteriosi labirinti fisiologici, oscuri meandri, processi
enzimatici e fermentativi che “sovraintendono alla corporalità e che
s’inseriscono nella nuova cultura del corpo ritrovato”, strettamente collegati
alle pance degli uomini e degli animali, in questo consiste la ricerca della
comunione tra processi digestionali e ingestionali, delle metamorfosi
stagionali, delle feste e fatiche agrarie e delle virtù extragrarie,
terapeutiche, nascoste nelle erbe e nello sterco, secondo le liturgie, i riti
della religione tellurica inferia e genitale, gastroenterica e viscerale.
Fagioli, rape, cipolle, cicorie di campo e patate, nutrimento
di sempre, regime dietetico vegetale. Perciò Bertoldo si ammala fino a morirne,
quando, costretto ad abbandonare il suo usus, dovrà mangiare alla mensa dei
“barbari carnivori”, e masticare i “carnumi fradici, sanguinolenti e maledetti
di gente che non coltivava la terra e che era dedita alla caccia crudele
d’animali e d’uomini”. Si spezza in lui quel cordone ombelicale che lo teneva
legato all’umido odorante della terra, al mondo oscuro e sotterraneo dove
maturano in silenzio i bulbi dell’aglio e della cipolla, le radici del
“rafano”, le patate e le bietole.
Si snodano così le vicende dei pomi di terra, “convolvolus
batatas, ortaggi da tuberi, topinambur, ortaggi da radice carnosa,
barbabietole, beta vulgaris, barba forte, barba di becco, barba di prete,
carote e pastinache, ortaggi e ramolacci, raperonzoli, scorzanera, porri e
scalogne; ortaggi ancora da foglie, da fusti e da fiori, acetosella, agretto,
cardi, cerfogli, borracina, crescione, finocchio, indivia, prezzemolo,
radicchio, spinaci, valerianella; ortaggi da frutta e da semi, cetriolo,
cocomero, coriandolo, melanzane, popone e zucca. È qui che si curavano le
digestioni lente o quelle eruttanti, le scorregge e le grandi “pippiate”, gli
indugi all’ombra dei noci, nelle canicole e negli intermezzi delle mietiture e
dei lavori di stagione.
[1] “La digestione costituisce una
lotta interiore che, presso i gastrolati, equivale ai più alti godimenti
dell’amore”.
DI LUCIO TUFANO IL 17/11/2020
FONTE Talenti Lucani-Passaggio a Sud
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