Che il calcio rappresenti qualcosa di importante per il nostro paese mi sembra affermazione scontata. Esso emana un fascino sportivo, sociale e politico ineludibile, rappresentando una chiave di lettura che ci permette di individuare le traiettorie della nostra società, della nostra capacità di vivere insieme quasi del nostro destino nazionale. E il calcio italiano come ritasi pagano, e come liturgia laica ci viene descritto da Pierluigi Allotti nel suo ultimo e agile volume edito da Il Mulino, Andare per stadi, Euro 12.
Il libro affronta e propone il calcio italiano dal lato, per restare nel solco del rito di massa come riferimento, delle sue cattedrali: gli stadi. Così facendo il testo si muove fra la storia d’Italia: dall’epoca dell’Italia liberale ai nostri giorni, dimostrando la vitalità, la gioia e le possibilità che il calcio rappresenta, e ha rappresentato, nel nostro paese e allo stesso tempo mettendone in risalto i limiti, le difficoltà e gli errori.
Il libro parte da Torino, dal confronto fra Italia e Francia del 29 marzo 1914 allo Stadium, non quello, ovviamente, che gli appassionati conoscono oggi. Confronto amichevole vinto dall’Italia per due a zero. Il racconto della partita e di tutto ciò che vi si mosse intorno dà l’opportunità all’autore per affrontare l’Italia dei primi del Novecento che cambia, che si modernizza ma che, allo stesso tempo, sta per affrontare il primo conflitto mondiale. E gli fornisce quindi la possibilità di parlare dell’evoluzione di una città del nord come Torino, roccaforte della corona e del progresso industriale del paese.
Il calcio cominciò presto ad assumere rilevanza di massa, come mette in risalto Allotti affrontando la partita Genoa – Pro Vercelli del 14 maggio del ’22, match perso dalla squadra di casa. Ed è singolare quanto scrisse, emblematicamente, “L’Ordine Nuovo” il giornale comunista diretto da Gramsci: “Genova è in lutto”. Simbolo che il fenomeno aveva dimensioni tali ormai che anche giornali alieni da interessi di questo tipo non potevano astenersi dal parlarne. Di particolare interesse è la parte in cui, attraverso la descrizione della nascita dello stadio del Bologna, Allotti racconta l’impossessarsi fascista dello gioco del pallone, che divenne centrale nella pedagogia, così come tutto lo sport, con cui il regime voleva “avvolgere” ed “educare” il paese, soprattutto i più giovani. Tra l’altro proprio il giorno dell’inaugurazione dello stadio, 31 ottobre 1926, alla presenza di Mussolini, si consumò, nel pomeriggio, mentre quest’ultimo si avviava verso la stazione, un tentativo di attentato al Capo del governo fascista, di cui fu individuato e accusato come colpevole Anteo Zamboni, linciato per questo dalla folla sul posto.
Evento che diede a Mussolini il pretesto per instaurare quanto già era nei fatti, e cioè il regime dittatoriale, attraverso la messa fuorilegge, il mese dopo, di tutti i partiti di opposizione. Sotto il regime si aprì per il calcio una delle stagioni più proficue. Per il regime esso rappresentava un’arma di propaganda importante (basti pensare al mondiale organizzato in casa e vinto nel 1934): “Sotto il fascismo –scrive l’autore – si aprì una stagione d’oro per il calcio italiano, strumento di propaganda tra i più efficaci a disposizione del regime, se era vero – come pure sosteneva Pozzo, richiamato dal presidente della Fgci Arpinati sulla panchina della Nazionale prima dell’incontro con i portoghesi – che «una vittoria riportata all’estero da coloro che difendono ufficialmente i colori nostri ha maggiore valore di dieci discorsi diplomatici»”.
Ma gli stadi sono stati simbolo anche di speranza per l’Italia che si rialzava dal secondo conflitto mondiale: un paese libero e repubblicano. Come il Filadelfia dove giocò il grande Torino di Valentino Mazzola (segnato dalla tragica sorte di Superga) simbolo di un’Italia che voleva risollevarsi dai lutti della Seconda guerra mondiale e tornare a divertirsi, sognare ed entusiasmarsi. Così come il grande stadio di San Siro, nella veste rinnovata del dopoguerra, che il 1° ottobre del 1961 registrò lo scontro fra l’Inter di Herrera ed il Milan di Rocco di fronte a più di 80mila spettatori. Era l’Italia del boom che nelle due milanesi scorgeva due filosofie di gioco, e forse di approccio alla vita: entrambi modelli vincenti, almeno nel calcio, di una delle città capofila del cosiddetto miracolo italiano.
Per non dimenticare il Cagliari di Gigi Riva che compì la vera e propria impresa di portare lo scudetto in Sardegna e che lasciò l’Amsicora, stadio dei trionfi, per giocare la prima partita dell’allora Coppa dei Campioni al Sant’Elia stadio comunale, impianto nuovo che voleva celebrare la squadra di Scopigno e “rombo di tuono” e dimostrare come anche il sud del paese potesse dire la sua nel mondo del calcio. Ma gli anni Settanta rappresentarono per il paese un periodo difficile e tormentato a più livelli, in cui la violenza si fece armata trovando delle rispondenze negli scontri di piazza e in quelli degli stadi, fenomeno quest’ultimo che in Italia avevano trovato ben presto significative manifestazioni. E’ il caso della morte del tifoso laziale Paparelli colpito da un razzo sparato dalla curva sud (occupata dalla frange più calde del tifo giallorosso), durante il derby giocato allo stadio Olimpico il 28 ottobre del 1979. Gli anni ’80 avrebbero conosciuto lo scandalo del calcio scommesse con la polizia che arrestò alcuni giocatori della Lazio prelevandoli dallo Stadio Adriatico dove si era giocata Pescara – Lazio.
Sempre negli anni ’80 si riaccesero rivalità già calde, come quella fra Juve e Roma, che si rinfocolò con l’annullamento, contestato, del gol di Turone durante una partita giocatasi allo stadio comunale di Torino il 10 maggio 1981. Si vissero, inoltre, imprese sportive vere e proprie come il titolo del Verona di Bagnoli (degli stranieri Briegel ed Elkjaer) o l’arrivo della filosofia sacchiana sul calcio nostrano, manifestatasi in tutta la sua importanza nello Stadio San Paolo di Napoli, al cospetto del Napoli, vincente e divertente, di Maradona, il 1 maggio del 1988, quando i rossoneri (di proprietà di Silvio Berlusconi) “sbancarono”, come si dice oggi, lo stadio, vincendo e uscendo fra gli applausi dei tifosi di casa che ne riconobbero la superiorità. Gli anni ’90 con il mondiale in Italia avrebbero portato ad un ammodernamento degli stadi, di cui l’emblema fu quello di Bari, nato su progetto di Renzo Piano, che ospitò la finale per il terzo e quarto posto dei mondiali fra Italia e Inghilterra.
Passando da Baggio che, tornando a Firenze, nello stadio che lo aveva visto protagonista, dopo la contestata cessione alla Juve, non tirò il rigore concesso a favore della Juve, fino al prototipo degli stadi moderni e funzionali nel nostro paese e cioè lo Juventus Stadium (inaugurato l’8 di settembre del 2011), il libro si chiude con una ricognizione della situazione stadi nel nostro paese, dove molti spettatori hanno abbandonato la partita dal vivo per tutta una serie di motivi, e dove la costruzione di impianti di proprietà delle società, e ammodernamento di quelli già esistenti, procede lungo un percorso lento, ma forse inesorabile.
Il libro racchiude dunque la storia del nostro paese all’interno dell’evoluzione di questa tipologia di impianti sportivi, cogliendone gli sviluppi, i ritardi e le possibilità nonché le sfide mancate e vinte.
Un modo intelligente, quello utilizzato dall’autore, per suggerire piste di indagine sulla società e sulla storia del nostro paese e anche per fornire un sano e brillante divertimento per chi ama leggere di questo sport. Una ultima suggestione: resta sempre affascinante il racconto del gol fatto con la parola scritta (che propone termini che la giustapposizione quotidiana ha reso disponibili nel vocabolario di tutti).
In un mondo di immagini in cui i gol a volte si vivono in tempo più che reale, da tutte le angolazioni, nulla può, a mio parere, eguagliare un Gianni Brera (più volte citato nel libro) che conia definizioni che sono rimaste nella storia, come l’appellativo di “rombo di tuono” dato a Riva, o di altri giornalisti che raccontano una rete. Prendo un esempio fra tutti (nel libro ce ne sono tanti). L’autore, con riferimento al derby di Milano del 1° ottobre del ’61, così scrive: “I rossoneri iniziarono a ritmo elevato sorprendendo i nerazzuri. E già al 4’ Pivatelli, liberissimo, su angolo di Rivera, sciupò una palla gol mettendo di testa al lato. Tre minuti dopo, arrivò il primo tiro in porta dell’Inter, ma al 18’ il Milan passò in vantaggio: Pivatelli, ancora una volta libero dalla marcatura di Bolchi, su uno spiovente in area di David staccò di testa, da cinque metri, incornò in rete sulla sinistra del portiere nerazzurro, Lorenzo Buffon. Al 27’, sempre Pivatelli sfiorò il raddoppio con un «sinistro omicida» (Brera); e al 45’ fu poi l’Inter a rendersi pericolosa con un destro insidioso di Bettini, respinto in tuffo, di polso, da Ghezzi”.
Chi è appassionato di calcio può riconoscersi (e riconoscere tante altre situazioni lette e vissute) in questi termini. Nella descrizione di Allotti, quasi può vedere l’azione, per chi non è interessato quantomeno rappresenta lo sforzo appassionato di descrivere e rendere vivo nel presente un atto che appena consumato passa, ma resta comunque vitale, così come il gioco del pallone nel nostro paese.
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