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lunedì 9 novembre 2020

QUANDO LA POETICA HA MUTATO LE SUE LEGGI



Eravamo cresciuti sempre più sdegnosi del “florilegio” tutelato da canoni decadenti, esistenziali e borghesi, l’ossessiva cadenza dei fiori nei versi.

Il florilegio aveva dominato tutto l’arco della poetica lucana che andava dagli anni patriottici e lucanardi di Nicola Paldi (1884), dai sonetti neoclassici dell’avvocato Vito Maria Magaldi (1885), ai versi religioso-monarchici di Giuseppe Regaldi (1894), ai carducciani toni di Domenico Valinoti, ai lirismi nazionalistici di Labella, a quelli italo-eroici del vescovo Razzoli, a quelli di Sergio De Pilato, a “I petali del Loto” e “L’anima del Liuto” di Federico Gavioli, ai versi di Emilio Gallicchio e di tutti coloro che farcivano le poetiche nostrane di fiori e visioni oniriche …

“In putrefazione ginestre sui calanchi”, qui Lotierzo aveva dissacrato il lirismo floreale; e Raffaele Nigro nel testo di “Giocodoca”, “Zero del principio – da scandire tutto – vieni lucano sali sulla mia coglia]”, e Giulio Stolfi in “Giallo d’argilla e Ginestre”, e la “malvarosa è un fiore” della poesia “Lucania” di Mario Trufelli, “Margherite e Rosolacci” di Rocco Scotellaro[, a «il vento menava l’uva spina per l’assolata campagna» di Bernardo Panella, le poetiche si adeguavano al dramma epicosociale, al realismo contadino e ambientale.

Insomma del Romanticismo erano sparite le pose ed i languori, si erano disperse al vento degli anni e delle guerre le sue scorie. Era definitivamente morta la lunare e lunatica letteratura, quella delle  camelie, delle gardenie e delle tuberose.

Si stava man mano manifestando, più che altrove, l’impressione dell’immenso teatro sconvolto, il dualismo rovesciato di attori e spettatori, le moltitudini che da spettatrici osavano assolutamente assurgere a protagoniste e, forse, si stava verificando la terribile metamorfosi che ha poi provocato la catastrofe linguistica, il sisma degli intrecci, il naufragio dei ruoli e delle parti, il cataclisma di Babele e dei suoi miti postumi e conseguenti, sconclusionati e confusi.

Che cosa era il pubblico e chi era il poeta? Il pubblico era il mansueto spettatore; poi, con l’inversione delle parti, lo scambio delle identità, con il contadino diventato piccolo borghese e il piccolo borghese già borghese, il sottoproletario già piccolo borghese, l’artigiano ed il vecchio bracciante diventati uscieri ed impiegati, infermieri e netturbini, tutti si sono fatti coinvolgere, inghiottiti in un mostruoso gioco delle parti, in un baratto estemporaneo dei ruoli che non è democratico, ma è “l’inconsistenza della competenza”.

È accaduto quindi che il poeta non ha potuto più dal tavolo o dalla finestra della sua dimora ammirare o cantare il paesaggio, la natura, le stagioni o l’infinito, gli uomini e l’ambiente.

Il poeta doveva essere un uomo, doveva partecipare alle fatiche di Sisifo, doveva lottare nell’intrigo dell’esistenza, vivere il dolore, le umiliazioni, caricarsi degli oneri della vita, esporsi al rude attrito della materia, essere militante, operatore, gregario, dare spettacolo di sé, assumere le responsabilità ed il carisma di un leader … doveva preferire il silenzio della modestia alla fanteria dei grafomani che oggi imbrattano carte e riempiono i cassetti alla disperata, tracotante ricerca di essere nella folla, nel pubblico, nella critica, nelle antologie, noti ed osannati come poeti, mentre hanno il talento fuori del loro stesso essere, lo hanno altrove o ne sono del tutto privi.

C’è una nota predominante in definitiva nell’eredità delle poetiche che hanno interessato la Basilicata, ed essa consiste in quell’elemento fondamentale della poetica decadente, la nostalgia dell’infanzia ed il simbolismo.

Osservare da dietro i vetri appannati la campagna, le capanne, la dura fatica ed il disperato grigiore della vita contadina, significava immedesimarsi, con il tepore degli interni borghesi, nel dramma di povertà e di frugale sobrietà dei contadini che tuttavia facevano pur parte di un presepe nello scenario, come se si volesse stimolare il gioco, il poeta penetrava curioso ad osservare ed a descrivere. Si è vero! Attorno a Gavioli e legati a Verlaine, a Rimbaud, a Baudelaire, a Mallarmè, essenzialmente a Garcia Lorca.

Ma furono Sinisgalli e Rocco Scotellaro che fecero testo per una poetica che mutava le sue leggi, la sua metrica, i suoi paesaggi, la sua sintassi, le metafore, la sua forma ed i suoi significati, le allegorie …

Un nugolo di poeti quindi da salvare, rispetto a quelli che hanno finto la funzione neorealistica, ma che invece sono stati decadenti. Nella Lilliput dei poeti contadini, ci sono ormai Gulliver di porcellana che non appartengono in nessun caso a quella realtà.

Né il titolo di poeta è come il diploma di scuola media, necessario per ottenere un posto di lavoro, ma rispetto alla gran massa di poeti che impavidamente o ipocritamente, alla guisa di nuovi Cesari vivono la condizione allucinogena della propria vanità, giustificando o addirittura esaltando ogni cosa sbagliata pur di guadagnare consenso, rispetto a questa invadente, a volte mansueta, a volte intrigante e dispotica razza, è anche opportuno, se non necessario, approntarne il totale sterminio.

Dopo aver cercato e meditato, Albert Camus trovò come la funzione della poesia e dell’arte fosse quella di «fissare in formule eterne ciò che fluttua nel vago e nelle apparenze».

Era la concezione medesima dell’arte nella sua esistenza classica e tradizionale.

Ma conosciamo le traversìe cui è sottoposto il discorso della poesia? È poesia, non è  poesia? Per questo motivo ci colleghiamo ai tempi passati, e ci affidiamo per questo ai tempi che verranno. Consapevoli del sentimento che pervade le tele colorate e le pagine scritte su di una parte del mondo ove le vite si sciupano futilmente nell’attesa delle metamorfosi impreviste e degli infimi destini cui ci assoggetta la provincia della Storia.

* * *

La seriosità della poesia forse finì con la fine di quella sensibilità veteroromantica dell’odore dei limoni, delle descrizioni floreali ed idilliche, quando la cultura egemone e la ufficialità letteraria calava dall’alto su tutta la nostra inventiva, le complicate sibille dell’ermetismo, le etichette del neorealismo, le ragioni del decadentismo, quelle del realismo socialista, dello zdanovismo, quando con Vito Riviello e con gli altri, riuscivamo ad ottenere un impatto straordinario con l’esistenzialismo, con il gramscismo e con la psicoanalisi di Freud.

Pur tuttavia l’isolamento e la condizione del sud attutirono questa tensione e destinammo la nostra attenzione in direzione dei problemi della nostra realtà pur proiettandoci purtroppo in una visione del localismo di provincia, piagnona, perdendo di vista il metodo per approfondire il contesto.

Il falso problema di collegarci al resto del Paese, di promuovere la cultura subalterna a cultura egemone restava un tentativo illusorio, rispetto a come vi erano riusciti Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Leonardo Sinisgalli e Michele Parrella.

FONTE TALENTI LUCANI-PASSAGGIO A SUD

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