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giovedì 30 maggio 2019

Non basta Melfi all’economia lucana

Secondo i dati, l'economia lucana è in ripresa; eppure è in crisi. 

Abbiamo parlato  della necessità di rilancio del territorio con due esperti.


Il paradosso dell’economia lucana è questo: secondo i freddi dati statistici è in ripresa, però la circostanza potrebbe essere vista come il segnale di una sconfitta.
Perché c’è ripresa e ripresa. I dati sono questi: in Basilicata l’economia negli ultimi anni è cresciuta in percentuale più che nel resto d’Italia. Ma bisogna valutare anche da dove si partiva: infatti resta ancora forte la distanza dalla media italiana sul fronte del valore aggiunto per impresa, e i livelli di disoccupazione sono più alti della media nazionale, secondo l’ultimo report di Banca d’Italia.

I numeri dell’economia lucana
Vediamo qualche dettaglio. Nel 2018 il manifatturiero ha ripreso a crescere, grazie all’export dell’automotive (l’industria che produce veicoli). Tira anche l’estrazione di petrolio, tornata su livelli molti simili a quelli precedenti le inchieste giudiziarie del 2016, che hanno riguardato gli impianti in Val d’Agri: da lì arriva il 10% del fabbisogno nazionale, visto che è il giacimento su terraferma più grande d’Europa.
A trainare la crescita è soprattutto l’export, quasi quadruplicato, passando da 1,1 miliardi del 2014 a 3,9 miliardi del 2017, con un aumento del 24,1%. Nel 2018 l’80% delle vendite all’estero è stato determinato dal settore delle auto: grazie alla ristrutturazione dello stabilimento Fca, terminata nel 2014 con un investimento di 1 miliardo di euro, lo stabilimento di Melfi (al confine con Puglia e Campania) oggi produce Fiat 500X e Jeep Renegade, destinate all’esportazione in oltre cento Paesi; la fabbrica, attiva dal 1994, fa lavorare quasi 12.000 persone, lucane e pugliesi (8.000 nella fabbrica FCA Plant e 3.300 tra indotto, logistica e servizi), con una produzione teorica annua di 400.000 vetture. Meno bene l’oro nero: le continue fermate e riprese dell’attività estrattiva nel giacimento Eni in Val d’Agri, tra 2016 e 2017, dovute pure alle vicende giudiziarie legate all’inquinamento dell’area, sono costate molto care. Però la ripresa ora c’è: l’export di petrolio della Basilicata è cresciuto nei primi nove mesi del 2018 del 50%, toccando quota 222 milioni di euro (più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2016).
Il turismo e le attività collegate vanno meglio, sebbene sia concentrato per il 70% su Matera(ultimamente anche grazie al titolo 2019 di Capitale Europea della Cultura) dove va ormai più della metà dei turisti che arrivano in Lucania. Il valore aggiunto del settore agricolo, che rappresenta circa il 5% del totale regionale (ci sono 600.000 ettari di superficie agraria utile, di cui 100.000 coltivati in modo “biologico”), è invece in calo: tra 2017 e 2016, per esempio, è sceso del 3,8%, colpendo tutte le principali colture regionali. Le più estese sono quelle del frumento, seguito da altri cereali che in buona parte costituiscono materia prima per l’industria alimentare lucana (avena, orzo, mais) e dalle patate; diffusi sono la vite (soprattutto uva da vino), l’olivo, nelle aree collinari, e gli agrumi, nelle piane ioniche. Nelle zone interne del Materano è sviluppata la coltura di cereali. Sulle colline a ridosso del Metapontino c’è una fiorente coltivazione di vigneti, mentre nella piana va molto la produzione di frutta: susine, pesche, pere, kiwi, fragole e agrumi.

Una regione che non pensa al futuro. Il parere di Ettore Bove e Giuseppe Las Casas
Una domanda sorge spontanea: le estrazioni petrolifere concentrate in Val d’Agri, a Sud, e la produzione di auto concentrata nella piana di Melfi, a Nord, possono trainare la Basilicata fuori dall’isolamento nazionale e sottrarla, soprattutto, all’emigrazione costante, con una media di 3.000 persone che se ne vanno ogni anno?

Ettore Bove, professore di Economia e Politica agroalimentare all’Università della Basilicata, lucano doc, da molti anni si dà da fare – con i suoi allievi – per riscoprire le tradizioni gastronomiche e rurali, usandole per rilanciare l’economia locale. “La Lucania è spaccata in due”, dice a Senza Filtro. “Da un lato c’è la polpa, nelle zone industrializzate e in quelle costiere; dall’altro, in questa regione per lo più montana, c’è l’osso. Si tratta di una situazione destinata a esasperarsi. E il turismo è un possibile antidoto contro l’abbandono di tanti paesi”.

Che cosa occorre fare concretamente?
Occorre scovare le grandi risorse del territorio, per poi lanciare un turismo basato – tutto l’anno – su ambiente, cultura, arte, tradizioni, gastronomia.
Detto così sembra facile.
Definisco la Basilicata una terra incognita, e non da oggi. È sempre stata fuori dai flussi tra Nord e Sud: quelli verso la Sicilia hanno sempre seguito la costa tirrenica, quelli verso Oriente la costa adriatica. Dobbiamo riscoprirci per poi svelarci, puntando sulle risorse locali. Se non si farà nulla l’alternativa resterà solo l’emigrazione.
Ci sono già esempi di rilancio?
Sì. Basti pensare a Castelmezzano, nell’area delle splendide Dolomiti lucane, che sta riuscendo a valorizzarsi sul fronte naturalistico, gastronomico e culturale; o a Guardia Perticara. Sono esempi da sviluppare e diffondere.
Il petrolio non basta?
È un settore che crea pochi posti di lavoro (nel raggio di 20 km dai pozzi l’effetto positivo già scompare) e molto inquinamento. La Basilicata, per esempio, ha un’altra ricchezza: tantissima acqua, con cui dissetiamo noi e pure le regioni vicine; ma la falda rischia di essere fortemente inquinata. Nessuno ovviamente può dire che bisogna rinunciare alle risorse del petrolio, preferibilmente gestite bene, nel rispetto dell’ambiente e della salute. Oggi la regione ricava molto dalle royalty (i compensi commisurati agli utili derivanti dall’estrazione di petrolio, N.d.R.). Però, a parte il fatto che prende le royalty più basse del mondo, dovrebbe anche saperle usare. Cosa che non succede.
Le istituzioni locali non si occupano di questi problemi?
Bisognerebbe disegnare una mappa turistica con i relativi investimenti, evitando di pensare soltanto al feudo elettorale del politico di turno. Non basta neppure Matera Capitale Europea della Cultura per dodici mesi, e poi tanti saluti; serve una forma organizzativa integrata dei valori materiali e di quelli immateriali.

Passiamo a Giuseppe Las Casas, professore di Tecnica e pianificazione urbanisticaall’Università della Basilicata, siciliano trapiantato a Potenza da anni, che non è più tenero del suo collega. “Non si può che definire catastrofico l’abbandono dei territori. Tanto più che i paesi dovrebbero essere considerati le sue sentinelle, a cominciare dal dissesto idrogeologico. Lo sono stati”.

E adesso?
Non più. Nessuno si preoccupa di quello che accadrà nel giro di pochi anni. Neppure i politici lucani, di ogni colore, e le istituzioni che governano.
Perché?
Perché la Basilicata è disgregata. La parola integrazione non ha cittadinanza. Si perde il senso di una programmazione integrata, sia a livello politico sia a livello gestionale. È anche una regione deresponsabilizzata: non c’è nessun obiettivo serio, solo una pletora di piccoli obiettivi. Quindi è una realtà fragile.
L’economia che spera nel petrolio della Val d’Agri e nelle auto di Melfi non ha futuro?
È tutta roba piovuta dal cielo. Un’economia seria dovrebbe essere legata – soprattutto in una regione come la Lucania – alla tutela dell’ambiente, in modo da avere un ritorno a lungo termine.
Invece?
Qualcuno si sta chiedendo che cosa sia rimasto integro. La nostra acqua è tutelata? Il caso della Val d’Agri, del suo petrolio e dei suoi disastri, in parte finiti in inchieste giudiziarie, dimostrano il contrario. E il consumo del suolo? Qualcuno sa che cosa sta provocando l’abusivismo delle seconde, terze, quarte case, esploso dopo il terremoto? Non c’è stata una presa di coscienza in nessun campo. L’ultimo piano territoriale lucano risale agli anni Sessanta, varato dal Comitato regionale per la programmazione economica (CRPE). Ebbene, si continua a fare riferimento a quello come se non fosse passato mezzo secolo. Insomma, non si è voluto decidere nulla sul futuro di questa regione.
Intanto incombe il rischio dello spopolamento. Già ora i lucani residenti all’estero sono 128.000, cioè il 22,6% della popolazione che vive ancora nella sua terra: 567.000 persone. Tantissimi altri sono in giro per l’Italia. Marsico Nuovo conta 3.102 emigranti e 4.000 residenti; a San Fele sono di più i residenti all’estero (3.020) rispetto a coloro che vivono ancora lì (2.934). Tra i tremila cittadini che se ne vanno ogni anno ci sono anche tantissimi laureati, perché il lavoro manca. Secondo il rapporto Svimez del 2017, nel 2065 in Lucania si scenderà a meno di 400.000 abitanti, e 27 comuni (su 131) con meno di mille residenti potrebbero rimanere completamente disabitati nel giro di pochi anni.
Certo, una Basilicata senza lucani potrebbe risolvere un sacco dei problemi gestionali. Ma forse la sua eutanasia non è una soluzione degna di questo nome.

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