L’emigrazione aveva rappresentato, prima del Fascismo, il fenomeno che, più di ogni altro, aveva mutato il volto della Basilicata, spopolandola ampiamente e privandola delle sue forze più importanti[1].
Cause molteplici e concomitanti l’avevano fatta nascere e prosperare: dalla miseria di larga parte della popolazione alle condizioni dell’agricoltura, dalla distruzione quasi completa dell’attività di allevamento al disboscamento, dalle pessime condizioni idrogeologiche a quelle igieniche, dalla cattiva amministrazione locale alla pressione fiscale.
I dati sono raccapriccianti: si parte dai 1.102 emigrati del 1876 ai 53.592 di espatriati dal 1882 al 1887. Negli anni successivi la situazione si aggrava sino a toccare, negli anni 1896 – 1903, la cifra di 120.796 espatri, facendo della Basilicata la regione d’Italia più colpita dall’esodo migratorio dopo il Veneto.
In definitiva, tra il 1871 ed il 1911 ben 361.326 lucani lasciano la propria terra per emigrare, con una punta massima di 18.098 emigranti nel 1906. Altri 14.868 partono nel 1912 e l’anno successivo se ne contano 16.156.
Contemporaneamente interi paesi si spopolano e si dimezzano: Pignola passa da 3.600 abitanti del 1881 ai 2.500 del 1901, Laurenzana da 6.200 a 4.000, Calvello da 4.800 a 3.300, Viggiano da 5.400 a 4.200, Brienza da 5.287 a 3.731, Moliterno da 6.983 a 5.408[2]. Anche San Fele, nel circondario di Melfi, è tra i più colpiti: nel 1881 la cittadina conta 9.704 abitanti, nel 1901 ne risultano solo 6.348 e, dopo appena 5 anni, nel 1906 si raggiunge la cifra di 5.482 .
Ed è tutta la regione a spopolarsi a vista d’occhio: nel solo biennio 1899 – 1901 il 6% della popolazione si era trasferita in America ed, in alcuni Comuni, la proporzione dei maschi adulti, rispetto all’intera popolazione, era ridotta ai minimi termini[3].
Tenendo, inoltre, presente che i sociologi nordamericani avevano calcolato in 1.000 dollari (all’epoca pari a 5.340 lire) il valore produttivo apportato da ogni emigrante a beneficio del loro paese, la sola Basilicata avrebbe versato, sino agli inizi del ‘900, in America, il valore di oltre un miliardo di lire. Ed il dato è ancora più rilevante se si tiene, altresì, presente che il territorio della regione equivaleva al 3,13% della superficie del Regno e la popolazione all’1,57%, mentre la cifra degli emigrati lucani nel ventennio 1882 – 1901 raggiunse circa il 9% dell’emigrazione totale.
Particolarmente alto era anche il valore delle rimesse che gli emigranti inviavano in patria, alle proprie famiglie, integrandone il misero reddito.
Secondo i dati contenuti nell’ “Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria”[4], in un solo esercizio, il 1906 – 07, oltre 218 milioni di lire vennero spediti in Italia in vaglia internazionali, dei quali circa la metà provenienti dai soli Stati Uniti, “cioè avviati in massima parte verso l’Italia meridionale e Sicilia”. Inoltre in un solo anno, il 1906, risultavano depositati a risparmio postale, per conto d’italiani all’estero, oltre 52 milioni di lire. Ed infine, nel solo anno 1907, risultavano spediti col vaglia speciale del Banco di Napoli, in servizio emigranti, circa 32 milioni di lire, in massima parte anche per il Sud e per la Sicilia.
Così concludeva l’ “Inchiesta”: “Nell’insieme si ha, nel giro di un anno, sebbene non tra identici termini, un totale risparmio approssimativo di circa 300 milioni. Non arriviamo a dire che tale cifra provenga tutta da risparmi di emigrati, né che rappresenti una media costante, ma, tenuto conto degli altri elementi incontrollabili del risparmio degli emigranti, asseveriamo che la cifra di 500 milioni può rappresentare, con grande approssimazione al vero, il risparmio annuo degli emigranti avviato in Italia, e nella maggior parte prodotto dagli emigrati meridionali. In Basilicata e Calabria entrano ogni anno molti milioni: forse oltre quaranta. L’industria più importante è dunque l’emigrazione.”
Un particolare cenno merita, infine, l’emigrazione femminile che, a differenza di quanto comunemente si pensa, fu piuttosto cospicua ed in continuo aumento, spesso richiamata da quella degli uomini partiti precedentemente. Così nella regione si passò dalle 193 donne emigrate nel 1876 alle 5.565 del 1901[5].
Il continente americano, soprattutto gli Stati Uniti, per la forte richiesta di manodopera non qualificata, rappresenta, dunque, la meta privilegiata dei lucani che lasciano la propria terra in cerca di fortuna, ma anche l’Argentina ed il Brasile con i loro immensi territori ancora non sfruttati vengono raggiunti da molti[6].
Nel solo anno 1900, secondo i dati del Commissariato Generale dell’Emigrazione, su un totale di 10.797 emigranti lucani, ben 4.730 sono diretti verso gli Stati Uniti, 2.924 in Argentina e 2.401 in Brasile[7].
I viaggi, che durano anche 30 – 40 giorni, costano, spesso, la vita a non pochi lucani per le difficilissime condizioni igieniche e di spazio con cui essi avvengono. Molti muoiono per asfissia, avvelenamento, fame o uccisi dalle malattie (malaria, polmonite, scabbia) che imperversano a causa dell’affollamento, della mancanza di igiene e del vitto scadente.
A nulla serve la presenza sulle navi di ben due sanitari, il medico di bordo e quello militare, perché il primo, essendo pagato dalla compagnia di navigazione, non ha alcun interesse a rilevare i problemi, mentre il secondo, per non mettersi in contrasto col collega e per ovvi motivi di convenienza, finisce con l’aderire alla tesi dell’altro.
All’arrivo, per i “birds of passage”(“uccelli di passo”, così erano chiamati dai poliziotti americani i lucani, insieme ai molisani ed ai calabresi) i problemi non erano terminati.
Dopo aver fatto sosta (proprio come uccelli migranti) fra conoscenti, amici o parenti della colonia italiana a New York, coloro che non vi si fermavano proseguivano verso altre mete: Boston, San Francisco, Chicago, o ancora più lontano.
Ma solo dopo aver avuto il proprio cartellino numerato, con il nome, una lettera dell’alfabeto ed una cifra, solo dopo aver sostenuto un “interrogatorio” sulla mancanza di un precedente contratto di lavoro e dopo aver passato le visite mediche, solo allora sulla tessera personale veniva impresso il timbro “admitted” e si poteva iniziare a sperare.
Le difficoltà erano sempre le stesse, innanzitutto quelle di inserimento nelle nuove realtà delle grandi metropoli, tanto diverse dai piccoli paesi di origine, poi i lavori più umili e malpagati, le difficilissime condizioni abitative e sanitarie[8], tutto contribuiva alla selezione dei più forti e dei più motivati.
I più deboli pagavano duramente l’avventura americana, anche dal punto di vista psichico. Si calcola che dal 1888 al 1906, nel solo Stato di New York, vennero ricoverate 97.293 persone nei manicomi ordinari e 2.376 in quelli criminali. Di questi il 45% era straniero: l’1,84% dei pazzi ordinari ed il 7,7% di quelli criminali era di nazionalità italiana[9].
Anche la malattie non risparmiavano i nuovi arrivati, soprattutto la tubercolosi.
Nella parte bassa di New York, la “down town”, vi era una strada, la “Cherry Street”, piena di panni stesi ad asciugare, detta la “via del polmone”. Ma si trattava di un polmone malato perché piena di tisici. I dati, anche qui, sono raccapriccianti: la mortalità dei bambini inferiori ai 15 anni era di 51 ogni 100.000, inferiore solo a quella dei bambini negri, doppia rispetto ai bimbi americani. Gli adulti, quando potevano, tornavano a morire in Italia: la percentuale dei tubercolosi rimpatriati sulla popolazione presente al 1908 in Basilicata era pari al 24 per mille, inferiore solo a quella del 26 per mille dei calabresi[10].
Di qui la nascita delle prime associazioni di mutuo soccorso tra gli emigranti, la conservazione dei costumi e dei valori di provenienza. Di qui le “Little italies”, nate nelle grandi città americane e dove le strade riacquistano le funzioni delle piazze di paese con la vita che scorre insieme al vociare della gente, dove si continuano a festeggiare i Santi Patroni di paesi natii con confraternite organizzate appositamente[11].
New York è indubbiamente la meta preferita, subito dopo viene la Pennsylvania, il New Jersey, il Massachussetts, la California, l’Illinois, la Louisiana, il Connecticut e Rhode Islands.
I nuovi arrivati dalla Basilicata si lanciano spesso in attività ben precise: a New York in lavori di sterro, a Trenton nel New Jersey nel lavoro in fabbriche di fili di ferro (gran parte sono provenienti da San Fele), a Filadelfia e Boston nelle ferrovie e nelle miniere, a New Orleans nell’elettricità (gran parte degli elettricisti lucani sono originari di Maratea), a Chicago e San Francisco nel lavoro in fabbrica.
Ma tutti i lavori sono buoni per sopravvivere e così si diventa straccivendoli, lustrascarpe, spazzini, materassai, gessatori. Anche la donne si danno da fare: sarte, pantalonaie, occhiellaie, domestiche, lavapiatti, stiratrici.
E così inizia la ricerca della fortuna e la scalata dei lucani nella società americana, una storia che non è ancora stata scritta completamente.
(Tratto da: Michele Strazza, Emigrazione e fascismo in Basilicata. Gli emigrati lucani negli Stati Uniti e l’appoggio al fascismo, Tarsia Editore, Melfi 2004)
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[1] Secondo Francesco Saverio Nitti (Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria, in: Scritti sulla questione meridionale, Vol. IV, Laterza Ed., Bari 1968) questo enorme movimento migratorio, che non ebbe precedenti nella storia italiana, costituì la causa modificatrice più profonda dell’assetto economico, morale e sociale del meridione, all’infuori di ogni influenza del Governo e della borghesia.
[2] I dati sono tratti da: Regione Basilicata, Dip.to Programmazione, Compendio Statistico 1996 della Regione Basilicata, Potenza 1996, Popolazione censita in Basilicata per Comune dal 1861 al 1991.
[3] Il problema dello spopolamento della regione e della diminuzione della popolazione maschile è presente anche nel famoso libro di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”(Edizioni Mondadori 1976): “Gagliano ha milleduecento abitanti, in America ci sono duemila gaglianesi. Grassano ne ha cinquemila e numero quasi uguale di grassanesi sono negli Stati Uniti. In paese ci restano più donne che uomini.”L’autore si sofferma anche sugli effetti dell’emigrazione sul tessuto familiare e sociale: “Gli uomini mancano e il paese appartiene alle donne. Una buona parte delle spose hanno il marito in America. Quello scrive il primo anno, scrive anche il secondo, poi non se ne sa più nulla, forse si fa un’altra famiglia laggiù, certo scompare per sempre e non torna più. La moglie lo aspetta il primo anno, lo aspetta il secondo, poi si presenta un’occasione e nasce un bambino. Gran parte dei figli sono illegittimi: l’autorità delle madri è sovrana.”
[4] Francesco Saverio Nitti, Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria, in: Scritti sulla questione meridionale, Vol. IV, Laterza Ed., Bari 1968.
[5] Commissariato Generale dell’Emigrazione, Annuario Statistico dell’emigrazione dal 1876 al 1925, Roma 1926.
[6] Ha scritto Carlo Levi (op. cit.):“L’altro mondo è l’America. (…) Non Roma o Napoli, ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini senza Stato potessero averne una”.
[7] Commissariato Generale dell’Emigrazione, Annuario Statistico dell’emigrazione dal 1876 al 1925, Roma 1926.
[8] Le difficili condizioni sanitarie di vita degli emigrati erano aggravate da un istituto, “il bordo”, che favoriva l’affollamento abitativo e, perciò, il diffondersi di malattie pericolosissime come la sifilide e la tubercolosi le quali prosperavano in condizioni malsane e promiscue. L’immigrato, infatti, per l’alto costo degli affitti, aveva la possibilità di sub affittare dei posti letto a scapoli o ammogliati con la famiglia rimasta in Italia, chiamati, appunto, “bordanti”. Il loro numero variava da 1 a 15 a casa, non in relazione allo spazio, ma al bisogno di alleggerire il peso del fitto che arrivava a portare via anche il 40% dell’intero salario.
[9] I dati sono riportati in Nino Calice, Le amate sponde, frammenti di una identità regionale, Calice Editori, Rionero 1992.
[10] Ivi. Secondo le notizie riportate dal Calice, nella maggior parte dei casi, la comparsa dei primi sintomi della tubercolosi avveniva dopo 3-6 anni dallo sbarco e colpiva soprattutto le donne e i giovani. La malattia risaliva a condizioni di povertà, di lavori faticosi e protratti per 12 – 14 ore di seguito, di sovraffollamento domestico. La struttura abitativa tipica dei quartieri italiani era, infatti, il “tenement”, edificio di 6 – 7 piani con appartamenti nudi e bui, riscaldati con vecchie stufe a carbone, in condizioni igieniche precarie, con una sola latrina per ogni piano, promiscui e sovraffollati.
[11] Osserva Stefano Luconi (“Buy Italian”. Commercio, consumi e identità italo – americana tra le due guerre, in: “Contemporanea”, Mulino Editrice, anno V, n.3, luglio 2002): “Gli immigrati italiani negli Stati Uniti portarono con sé quel senso campanilistico di appartenenza alla propria regione e alla propria provincia, se non addirittura al proprio villaggio, che derivava dal secolare ritardo nel completamento del processo di unificazione nazionale in Italia. Giunti in America attraverso catene migratorie dietro sollecitazione di parenti e amici che li avevano preceduti, i nuovi arrivati si stabilivano presso questi familiari e conoscenti dando vita a insediamenti basati su legami di villaggio. Le Little Italies delle principali città statunitensi si svilupparono quindi non come comunità nazionali omogenee ma come aggregati di colonie a carattere locale, ciascuna delle quali raccoglieva immigrati provenienti da uno stesso paese o da una medesima provincia. (…) I residenti di ognuna di queste colonie parlavano quasi tutti uno stesso dialetto, quello del loro luogo natale, e acquistavano anche beni di consumo presso empori e negozi di quartiere gestiti dai loro compaesani”.
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