RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO
di Pietro Fasanella San Fele, 6 dicembre 2015
A Candaratë era un metodo di conservazione sotto sale della carne di
maiale, carne che costituiva il piatto tipico dei “poveri”, e non solo, perché
utilizzava le parti meno nobili del suino e cioè rë spangèddë (le
costole), u vuccularë (la parte formata di grasso e di cotenna pendente
tra il collo e la gola, chiamata anche guanciale), a cotëchë (la
cotenna), i piedi, rë vrécchjë (le orecchie).
I veri poveri non erano in
condizione di fare neanche a candaratë.
Fino agli anni '70-'80 del secolo
scorso nelle case, specialmente in quelle dei poveri, si faceva appunto uso
della candaratë.
Bisogna ricordare al lettore che il maiale allevato
era la “ricchezza” della famiglia per un intero anno, in quanto assicurava il
salame (salsiccia, soppressata, cotechino), il prosciutto, il lardo, la sugna
che si conservava nelle vesciche, il sanguinaccio, ecc, ecc. Insomma del maiale
non si buttava nulla. Finanche le setole venivano utilizzate dai calzolai o
servivano per fare i pennelli.
Nelle famiglie numerose talvolta si
piangeva di più per la morte del maiale che per quella di una persona cara.
Le costole, il guanciale (grasso
venato di magro), la cotenna, le orecchie venivano ripuliti del grasso in
eccesso che c'era intorno e crudi venivano messi, a pezzi non molto grandi,
nella sërólë che era un vaso abbastanza capiente di terracotta il quale
veniva utilizzato anche per la conservazione dell'olio, della salsiccia nella
sugna, dei peperoni sott'aceto.
Quindi la sërólë, o cantaro,
donde il nome candaratë era il recipiente usato per la conservazione dei
pezzi sopra citati.
Per inciso, si deve precisare che i
cantari nel periodo romano venivano usati come ornamento dei giardini.
La conservazione, in particolare,
avveniva in questo modo: si faceva uno strato di sale grosso dello spessore di
un dito e sopra si metteva uno strato di carne, ricoperto da un altro
abbondante strato di sale. In altri termini, si faceva na fëlérë di sale
e una di carne. Una volta completato il riempimento u vasë dë crétë si
chiudeva con un coperchio o un mattone pesante ed iniziava la stagionatura. La
salatura doveva essere giusta, né eccessiva, né scarsa. Bisognava perciò essere
esperti dell'operazione, perché se si faceva uso di poco sale si correva il
rischio che i pezzi diventassero arangëtë, cioè rancidi e perciò non
commestibili.
La durata della stagionatura era
variabile e poteva durare anche alcuni mesi.
Durante la conservazione,
all'occorrenza, si prelevavano dalla sërólë i pezzi che necessitavano,
si mettevano a curare nell'acqua per qualche giorno, si lavavano per bene e si
cucinavano.
Una minestra con i cavoli conditi
con cotenna, o guanciale, o costole era una vera squisitezza. Un piatto di
pasta condito con ragù a base di cotenna o costola costituiva una pietanza
appetitosa e ricca di calorie.
Un'altra pietanza “povera” si
preparava con l'acciatë. Il lardo tritato e mescolato con l'aglio, il
prezzemolo, il pomodoro o la salsa era l'ingrediente fondamentale per preparare
un ragù che era una vera delizia e che non aveva nulla a che vedere con il
sughetto di aglio, olio e peperoncino dei nostri giorni.
Dopo il prelievo di qualche pezzo si
doveva usare l'accortezza di coprire bene con il sale le parti rimanenti.
Una variante della candaratë era la conservazione delle
costole nella sugna.
Le costole, dopo una salatura di 6-7
giorni, si lavavano e, appese, si mettevano ad asciugare. Dopo l'asciugatura si
mettevano a bollire per pochi minuti fino a far fondere il lardo in sugna ed in
essa si conservavano nel recipiente. La conservazione era perfetta e non aveva
nulla da invidiare al sottovuoto in plastica dei giorni nostri. All'occorrenza
si toglievano dei pezzi dalla sugna e si mettevano a cucinare.
Lo scrivente ricorda, con tanta
nostalgia, rë spangèddë che sua
madre contadina cucinava con la ciambottë (pietanza i cui ingredienti
erano peperoni, zucchini, pomodori e cipolle). Le costole, così cucinate, erano
una vera ghiottoneria, forse perché allora la fame era tanta e c'era poco da
mangiare.
I piedi venivano curati come il
lardo. Dopo la stagionatura venivano appesi e usati al momento opportuno. Anche
i piedi, cucinati con la verdura, erano una meraviglia.
Oggi i tempi sono cambiati, ma in
peggio. Non si fa più ricorso alla candaratë perché i maiali si macellano
tutto l'inverno (nel passato solo verso Natale) e quindi si ha la possibilità
di usare carne sempre fresca o, in alternativa, costole, cotenne ecc si congelano.
Nelle macellerie la cotenna e il
guanciale vengono forniti gratuitamente.
Non si fa più a candaratë
anche perché il grasso del maiale è stato demonizzato in quanto provoca
l'aumento dei lipidi nel sangue, l'aumento del colesterolo, l'”intasamento”
delle vene. Insomma il grasso è ormai il nemico dell'organismo.
Sull'onda di questa demonizzazione
le persone, dopo la macellazione del maiale si disfanno di tutte quelle parti
che erano alla base della candaratë. Il sottoscritto ricorda che i suoi
zii portavano o pandónë decine e decine di chili di lardo, di cotenna,
di guanciale che venivano poi consumati da lupi e volpi.
É vero che la situazione è diversa.
Però c'è un filo invisibile che collega il presente al passato e attraverso
questo filo è possibile rivisitare a candaratë , riscoprire i sapori e
piatti di una volta, continuare le tradizioni. Non occorre una vasta cultura o
una spiccata intelligenza per conservare, come una volta, alcune parti del
maiale, ma buona volontà e buon senso, soprattutto quello della misura. Anzi
oggi sarebbe più facile di una volta fare a candaratë . Non occorre più a sërólë dal fondo consumato dal sale.
Basta una piccola damigiana di vetro dal collo largo che permette il passaggio
della mano e quindi della carne.
Si ringraziano di cuore due arzille
e simpatiche “ragazze” ultranovantenni (Filomena Calabrese ed Agnese Di
Giacomo) dotate di memoria di ferro, di affabilità e di buona parlantina, le
quali hanno fornito al sottoscritto, con dovizia di particolari, le notizie
relative alla candaratë.
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